READING ALLA SALTATEMPO

dicembre 31, 2009

 

Serata ricca di ospiti e di poesia ieri alla libreria Saltatempo di Ragusa.

Dopo i saluti di Pippo di Noto, che ha letto le sue Petri sunu e Scura c’agghjorna, tratte da Paci e amici, si sono avvicendati i poeti ospiti del reading, che hanno recitato in lingua e in dialetto.

A fare da cornice, la poesia di Ignazio Buttitta, magistralmente recitata da Francesco Schembari. Tra le altre, Il poeta in piazza, ‘A tristizza, Matrimoniu perfettu, Mamma tedesca, con l’accompagnamento dell’arpa celtica.

Per leggerne alcune: http://www.irsap-agrigentum.it/lingua_e_dialettu.htm

Nicoletta Sciarrino ha letto alcune sue composizioni in lingua e Francesco Scollo, di Monterosso, ha recitato ‘U zaurdu e una poesia dedicata al suo paese, seguito da Giovanni Marletta di Chiaramonte.

Francesco Licitra ci ha dato ampi spunti di riflessione, regalandoci  i Canti d’amore e di libertà del popolo curdo, in cui amore e libertà finiscono col diventare sinonimi. Alcuni dei titoli: Chiodo di Latif; La canna e il vento, Calze, Dialoghi, Quando di Sherko Bekas.

Per chi volesse leggere le poesie citate: http://www.ilfoglioclandestino.it/8%20-%20kurdo.htm

Turi Vicari ha ricordato lo scrittore Giovanni Paolino, scomparso recentemente; Emanuele Schembari ha letto alcune poesie tratte da L’orologio elettronico, una delle quali dedicata al gatto Matteo; Domenico Cultrera ha  proposto alcune sue liriche in lingua; Gabriella Rossitto ha letto alcune brevi poesie in dialetto tratte da Russania; Mariella Sudano ha  letto sue poesie provenienti dall’e-book Poesie, pubblicato dall’editrice Arpanet.

Fabio Messina ha recitato due poesie in dialetto palazzolese; Giovanna Vindigni ha letto alcune poesie  in dialetto ragusano, tra cui “Ru’ macc’i carrua” ; Ernesto Ruta ha letto sue composizioni, caratterizzate da un’interessante commistione di lingua e dialetto, e ha commosso il pubblico ricordando l’incontro con Bruno Segre, testimone della Shoah.

Turi Dipasquale, componente del gruppo Talèh, ha eseguito, senza accompagnamento, il brano di Guglielmo Casca, Beddu nostru Signuri, dedicato al Cristo nero di Scicli.

Ha concluso Anna Schembari, con una sua sorprendente performance.

Complimenti agli organizzatori della serata e un grazie , come sempre, per l’ospitalità alle titolari della Saltatempo.

 per le foto:  

 http://www.facebook.com/album.php?aid=2035738&id=1594816685&l=1510b955c2

 

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Poesia alla Saltatempo

dicembre 26, 2009

 

LIBRERIA SALTATEMPO

RAGUSA

via G.B.Odierna 182

Mercoledì 30 dicembre ore 17.30 READING DI POESIA 
Chiudiamo l’anno in versi

in collaborazione con

A.N.A.P.S sezione Ragusa


ARTINCONTRO

dicembre 21, 2009

 

Venerdì 18, all’Auditorium della Camera di Commercio di Ragusa, ha avuto luogo la seconda rassegna ARTincontro, curata splendidamente dalla poetessa Sonia Migliore e condotta con altrettanta perizia dalla giornalista Isabella Papiro.

Dopo i saluti istituzionali di Salvatore Battaglia, presidente di Officina 90, dell’On Franco Antoci, presidente della Provincia di Ragusa, del sindaco di Ragusa, Nello Di Pasquale, e dell’assessore alla cultura Mimì Arezzo si sono esibiti i poeti Sonia Migliore, Maurizio Nicastro, Fabio Messina, Mariella Sudano, Gabriella Rossitto, Edoardo Spadaro, Pippo Di Noto e Giovanna Vindigni, accompagnati dai musicisti presenti.

Per la musica si sono esibiti Milena Di Rosa,  Salvo Giorgio, Mirko Marsiglia, Peppe Nappa, che ha musicato i versi di Sonia Migliore, e Giacomo Schembari.

Per la danza la ballerina Cetty Schembari ha eseguito un balletto accompagnata dal maestro Sergio Carrubba.

Per il teatro infine Fabio Guastella e Giuseppina Vivera hanno messo in scena un divertente duetto.

Dopo la consegna delle targhe agli artisti presenti, e della targa alla memoria di Angelo Campo, è stata inaugurata la Collettiva d’Arte, alla quale hanno contribuito gli artisti

GIOVANNI AMENTA – pittura

ARAMIS – pittura e tegole

PAOLA BURRAFATO – pittura

ELENA CAMPO – pittura

STEFANIA CASTELLO – pittura

SERGIO CORALLO – pittura

MARCO CRISPI – pittura

GIOVANNI GAMBINA – pittura e sassi

DANIELE GIULIANI – modellismo

SALVATORE LICITRA – scultura

MIRKO MARSIGLIA – pittura

SALVATORE MODICA e GIULIA PLUCHINO – pittura

MASSIMILIANO LICITRA – pittura

CLEMENTE CALAMARI – scultura

GAIA NICASTRO – pittura

GIORGIO NOBILE – litografia

SARO SGARLATA – pittura

MICHELE TROPEA – pittura e scultura

DAVIDE TOMASELLO – pittura

 

 

 

 


SECONDA RASSEGNA ARTINCONTRO

dicembre 15, 2009

OFFICINA 90
ASSOCIAZIONE
CULTURALE
RAGUSA

SECONDA RASSEGNA ARTINCONTRO

Venerdì 18 Dicembre 2009
Ore 18,00  Auditorium Camera di Commercio
p.zza Libertà Ragusa

 

ore 20,00    Inaugurazione della Collettiva di pittura e scultura
Sala Borsa Camera di Commercio
Via Natalelli – Ragusa

L’Associazione Culturale “Officina 90” con l’organizzazione di questa serata di musica, poesia, pittura e scultura, continua il suo percorso culturale che da oltre 23 anni segna una presenza significativa nella città di Ragusa attraverso l’organizzazione di una lunghissima serie di convegni, pubblicazioni, dibattiti ed iniziative su un ampio ventaglio di tematiche culturali, scolastiche, geologiche, sanitarie, botaniche,urbanistiche, di solidarietà e politico-sociali che sono stati punto di orientamento per l’opinione pubblica.
Artincontro è una festa dell’Arte in tutte le sue sfaccettature e vuole promuovere gli artisti locali sottolineando il talento e la sensibilità artistica.
Il nostro auspicio è che le Istituzioni pubbliche e private possano avvalersi sempre più del talento dei nostri artisti, nelle varie manifestazioni che si organizzano nel comune ibleo.

Il Presidente

Totò Battaglia


L’ISOLA

dicembre 13, 2009

Ulisse e Calipso, Arnold Böcklin, 1883

 

 

 

L’ISOLA

Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno, restò nove anni sull’isola Ogigia, dove non c’era che Calipso, antica dea.


CALIPSO   Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola.
Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare ? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi ? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.

ODISSEO  Una vita immortale.

CALIPSO  Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto?

ODISSEO   Io credevo immortale chi non teme la morte.

CALIPSO   Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto? Perché i discorsi che vai facendo tra gli scogli?

Odisseo. Se domani io partissi tu saresti felice?

Calipso. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci.

ODISSEO  Si tratta sempre di accettare un orizzonte.
E ottenere che cosa ?

CALIPSO   Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dei che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni. E chi son io, chi è Calipso?

ODISSEO   Ti ho chiesto se sei felice.

CALIPSO   Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi di uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada.  Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse ?

ODISSEO   Dunque anche tu parli agli scogli ?

CALIPSO   E’ un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dei quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare ma obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli piú muovere. Qualcuna di noi resistè ai nuovi dei; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.

Odisseo. Ma non eri immortale?

CALIPSO  E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?

ODISSEO   Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.

CALIPSO   E’ un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso.

ODISSEO   Non ti basta che sono con te quest’oggi ?

CALIPSO   Non sei con me, Odisseo.
Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola.
E non sfuggi al rimpianto.

CALIPSO  Quel che rimpiango è la parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano ? Hai sentito ch’eri sola  e che eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quello che sei l’hai voluto.

CALIPSO  Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. E’ un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.

ODISSEO  Sei tu, la signora, che parli ?

CALIPSO  Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te.

ODISSEO   Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.

CALIPSO   Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case ?

ODISSEO  Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.

CALIPSO   Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra scogli e un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.

ODISSEO  Saprò almeno che devo fermarmi.

CALIPSO  Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo… 

ODISSEO   Non sono immortale.

CALIPSO   Lo sarai se mi ascolti. Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che va ? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto ?

ODISSEO   Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.

CALIPSO   Dimmi.

ODISSEO   Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

 

CESARE PAVESE

 

Il brano è tratto da Dialoghi con Leucò,  pubblicato nel 1947.

A proposito della genesi di questo libro, lo stesso Pavese scrive:

Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.”

 

Mi piace accostare a questo dialogo versi moderni, ma con un respiro antico.

 

Calipso e Odisseo


Guardami Odisseo, guardami davvero

Davanti a te sedutonudo, inginocchiata

lievi i capelli sopra le tue cosce

mi sentivo mormorare io ti adoro

– Ti adoro – Io! L’ ho detto!

(Ermes sorvegliava il miracolo

nel sogno)

Ora ti scorgo dove non ci sei

appari muto prima di arrivare

assumi la posa dei vicini

cambi con le tue, le forme degli astanti

Incontro la tua ombra nei crocicchi

e la tua voce, la tua voce

scava solchi vibranti dentro il petto

 

Siamo antichi Calipso e stanchi

giorni schiantati addosso, macigni

vedi le crepe nel mio corpo, viaggi

sempre in cerca di qualcosa e errori

rotte impazzite, tempeste, morti

e polvere di noia

non ci saranno primavere

e fiori caldi sulla sabbia

tu offri pietre fredde, risplendenti al buio

Arretro, guardandoti negli occhi

tu parli ancora, tu sussurri sogni

rovesci schegge di passione

frantumata

Sbando

mi volto piano incontro al mare

vertiginosa vastità, vascelli persi

non ho la tua energia

la tua nicchia di pietre luccicanti

pochi giorni, ninfa, mi restano

Penelope è più giusta, meno folle

allungherà la mano per raccogliermi

 

Ti scioglierai dalle mie fibre, allora

le spalle nude contro il vento

mortale alla ricerca del tuo porto

Volerò leggera sulla rotta, libellula

nell’aria salmastra del mattino

consolerò la solitudine notturna

chiederò a Poseidone di arrendersi, a sua volta

sarò la brezza che ti spinge

e tu verdevestito raggiungerai Penelope, che tesse

Rannicchiato nel suo abbraccio, narrerai

e narrerai sempre più lento )

di un uomo che cercava di tornare

al semplice trascorrer della vita.

 

FRANCA CANAPINI


DICERIA DELL’UNTORE

dicembre 5, 2009

Al Teatro Verga fino al 13 dicembre

DICERIA DELL’UNTORE
dal romanzo di Gesualdo Bufalino
pubblicato da Bompiani
adattamento teatrale e regia Vincenzo Pirrotta
scene e costumi Giuseppina Maurizi – musiche Luca Mauceri
movimenti coreografici Alessandra Luberti – luci Franco Buzzanca
con Luigi Lo Cascio
Vitalba Andrea, Giovanni Argante, Giovanni Calcagno, Lucia Cammalleri,
Nancy Lombardo, Luca Mauceri, Plinio Milazzo, Marcello Montalto,
Vincenzo Pirrotta, Salvatore Ragusa, Alessandro Romano
Mario Gatto, Salvatore Lupo, Michele Marsella, Giovanni Parrinello
produzione Teatro Stabile di Catania

 

 

Riuscita trasposizione teatrale del romanzo di Bufalino, ieri sera in scena allo Stabile. Densa e toccante l’interpretazione di Luigi Lo Cascio, in duetto con la Morte.

Intensa, forse appena oltre il necessario, la prova di Giovanni Calcagno.

Di seguito alcune recensioni.

 

 

 

Sembra più un lager un mattatoio un manicomio, che un sanatorio per ammalati di tubercolosi la scena ideata da Giuseppina Maurizi: un’alta cavea inclinata, bianca come le pietre di Siracusa, quasi un mini-teatro greco, fornito di scala centrale e, semi-nascosti, al di sotto, un gruppo di quattro musici e sul fondo uno schermo cangiante di colore a seconda l’umore dei protagonisti, agghindati per lo più con abiti o tute color corda. Come dei detenuti in quella Rocca della Conca d’Oro, fra Palermo e Monreale, in quell’estate del ’46, teatro della Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, romanzo in parte autobiografico, “ostico e onirico” secondo Vincenzo Pirrotta che ha messo insieme un non certo facile adattamento teatrale, curandone pure la regia e vestendo lui stesso i panni del Gran Magro con lo spirito d’un domatore da circo in frac bianco con tuba e bastone neri, avendo accanto un formidabile attore qual è Luigi Lo Cascio nel ruolo dell’io narrante. Un luogo sinistro questo sanatorio, “un livido colombaio di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l’eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d’annegati”, secondo la descrizione che de luogo ne fa Bufalino paragonandolo all’inizio ad una “vecchia tartana, un’arca in secco su un’altura alla fine di un’inondazione, abbandonata dai vivi…”.- Il bacillo di Koch che è nell’aria lo si percepisce danzare testardamente e inesorabilmente da un polmone all’altro dei ricoverati, come un tarlo che dilania il loro corpo e la loro anima. Credo sia stato per Pirrotta un lavoro immane toccare la visionarietà di questo testo barocco, espressionista, metaforico, eppure così reale che, come sappiamo, prima d’essere pubblicato da Sellerio nel 1981, è stato riscritto più volte in una lingua alta, ricercata, poetica, bufaliniana tout court. Conosciamo lentamente il cappellano militare padre Vittorio (Giovanni Calcagno), lo studente fuoricorso di medicina Sebastiano (Giovanni Argante), lo stesso Gran Magro che “giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione”, la puttana della Kalsa (Vitalba Andrea), la ragazza della città (Nancy Lombardo) che canta pure versi dell’autore, i due Luigi (Marcello Montalto e Salvatore Ragusa) e infine Marta (Lucia Cammalieri) la ragazza diafana di cui s’innamora Lo Cascio. Ed è su questo amore in sanatorio che scorrono via parecchie immagini dello spettacolo. Un amore sublime e sublimato che profuma di zagare e tuberose e che dopo vari incontri, anche al di fuori del sanatorio, Marta morirà fra le sue braccia in una pozza di sangue, qui senza mai dare un colpo di tosse, né tanto meno farsi udire dal pubblico della “prima”, costringendo qualcuno a lanciare verso il palco un lieve “voce, voce”. Di tutti gli ammalati solo Lo Cascio ritrova la salute, vissuta quasi con un senso di colpa, come una diserzione dal “noviziato della morte”, un tradimento involontario che richiede la testimonianza della “diceria”. Pirrotta regista ha cercato di riproporre i suoi stilemi etnici ed etnomusicali, con risultati spiazzanti rispetto alle aure bufaliniane. Mi riferisco alla danza delle otto maschere bianche con i simulacri degli scacchi come copricapo, le tarantelle canterine, le clownerie e le pantomine con trampolieri e prestigiatori, i musici in processione con i pupi in mano. Bella invece quella cascata di radiografie avvolgenti circolarmente Lo Cascio, che in chiusura lo si vede abbracciato alla sua Marta in rosso, come due innamoratini di Peynet. Non sono mancati alla fine numerosi applausi al Teatro Verga dove si replica sino al 13 dicembre.                                          

                                                                                                                                                                GIGI GIACOBBE

 

…il romanzo di Bufalino, col suo linguaggio immaginifico e barocco, con quel suo gusto introspettivo, di una introspezione acuta e sempre tesa a scavare nei meandri dell’anima, non costituiva un testo facile da portare sulla scena.
Grande scommessa del regista Vincenzo Pirrotta e del protagonista Luigi lo Cascio, scommessa vinta pienamente per un atto unico che ti fa trascorrere quasi due ore in un mondo surreale, quello di un sanatorio siciliano nel lontano 1946, un luogo dove la morte si frequenta ogni giorno e ogni giorno si mette in gioco la propria vita. Tra personaggi fantasma, larve umane e, interpretato dallo stesso regista, il Gran Magro, un direttore del sanatorio subdolo e senza pietà, Lo Cascio interpreta la vicenda del protagonista in modo sommesso e intenso, mentre scorre una vicenda non vicenda che si configura come un ineluttabile viaggio verso la morte. Unica possibilità di fuga? Amare. Marta è l’oggetto d’amore, ma nello stesso tempo triste metafora di un destino malefico. Il tutto sottolineato dalle musiche pacate, con accenni popolareggianti, tese a ricostruire un’atmosfera siciliana in una storia esistenziale di valore eterno, eseguite come pacata sottolineatura dell’esile trama.
Alla fine il Gran magro e la donna amata muoiono, ma qualcuno si salva. E va verso la vita dopo avere subito la magica, misteriosa attrazione verso la morte.
Sul palcoscenico resta Marta, a testa riversa, il vestito rosso passione e la lunga chioma giù, giù verso la misteriosa signora, che la accoglie, sensuale, tra le sue braccia.

                                                                                                                                                  SILVANA LA PORTA

Diceria dell’Untore, trasposizione drammaturgica dell’omonimo romanzo dello scrittore di Comiso Gesualdo Bufalino, che ha inaugurato la stagione teatrale con applausi scroscianti.

E’ l’estate del 46, è il racconto di un amore tra due ragazzi che vivono il dopoguerra, parla anche della morte perché la storia si svolge in un sanatorio esiliato su una rocca nel palermitano dove vivono i malati di tubercolosi, condannati dal mal sottile, che lottano per sopravvivere ma che alla fine soccombono. Lo Cascio è l’io narrante di questo atto unico, è il protagonista, in bilico tra il mondo dei vivi, la città, e quello dei morti, la Rocca. E’ innamorato di Marta, una sua coetanea che vive nel sanatorio e che ricorda con nostalgia cosa voleva dire assaporare la vita quando la tisi non la stava uccidendo.

Lo Cascio si trova perfettamente a suo agio a parlare la lingua onirica e a volte complicata, ma sempre incalzante di Bufalino. Vincenzo Pirrotta, il regista attore che ha firmato la trasposizione teatrale e che ha ritagliato per se, il ruolo del Gran Magro, tanto surreale e pomposo da sembrare così mortale e fragile, ha quasi danzato accanto al protagonista che ha scelto e sul quale ha immaginato il suo spettacolo, creando per Lo Cascio, un ruolo che gli calza a pennello. Con Diceria dell’Untore l’attore palermitano torna a lavorare in una compagnia, dopo due stagioni dedicate ai monologhi, ma anche in questo caso Lo Cascio risulta l’assoluto protagonista. E’ l’io narrante a momenti, poi vive la storia sulla sua pelle in un mix continuo di scene.

Gli attori della compagnia dello Stabile hanno vissuto la loro tragedia grazie ad una scenografia quasi viva, come la musica e i movimenti scanditi dal ritmo degli strumenti suonati dal vivo.  Sul palco, oltre a Lo Cascio e Pirrotta, salgono tra gli altri Vitalba Andrea, Giovanni Calcagno, Luicia Cammaleri. Tutti bravissimi.

Diceria dell’untore, al suo debutto, è stata commovente, dura, straziante, ma ha valorizzato una storia che forse molti avevano dimenticato in un cassetto e ha inaugurato con giusto piede la stagione teatrale dello stabile.

 

                                                                                                                                       MARIANGELA DI STEFANO