
“Jennuvinennu: quando la parola si fa scudo e spada”
di ALFIO PATTI
martedì 7 dicembre 2010, ore 16,30 – Castello di Leucatia, Catania
Relatori:
Angelo Scandurra, poeta, scrittore
Clelia Tomaselli, scrittore, giornalista
Performance di cunti e canti sulla “Giustizia e sonnu” di Alfio Patti
La manifestazione rientra nell’ambito degli incontri promossi dalla Biblioteca Centro Culturale “Rosario Livatino”, in collaborazione con l’Associazione Culturale “Accademia del tempo”.
Ha introdotto la scrittrice Clelia Tomaselli.
Riassumo qui, con le limitazioni del caso, l’intervento di Angelo Scandurra.
“La poesia è simbiosi parola / musica, e ogni parola in poesia deve tradursi in musica.
Potremmo domandarci quale sia il motivo del recupero del dialetto in era tecnologica.
La parola desueta, dissanguata, non basta più, ha perso la forza semantica: per questo ci si rifugia nel linguaggio cifrato, nel dialetto.
Patti gioca con l’intelligenza, avverte, induce alla riflessione. Jennuvinennu, prima o poi, ci dice, qualcosa accadrà, qualcosa dovrà necessariamente cambiare. Sono parole che traducono emozioni, ma soprattutto speranza.
Il libro è scorrevole, forte; poggia su una struttura che, raccontando in modo gioioso e ironico, non afferma in modo assoluto e non prevarica il lettore, il suo giudizio, offrendogli piuttosto spunti e possibilità di riflessione.
Il tutto tramite l’ironia accattivante, cui si aggiunge l’autoironia: l’autore, portatore di intelligenza, diventa portavoce di riflessione per tutti gli altri.
Patti è solare, non ingenuo, è aperto e restio ai sotterfugi –mia nonna mi diceva che bisogna diffidare delle persone complesse, seriose, pervase da negatività.
A proposito della lingua, è da notare l’incisività di alcuni termini, uno fra tutti malasurtàti.
Ciò a cui deve tendere l’arte che non sia fine a se stessa è farsi frangivento rispetto ai luoghi comuni, alla stupidità banalità inutilità –specie della televisione, dove la parola è stata uccisa, perdendo intensità e vigore.”
Ma è lo stesso Alfio Patti, subito dopo, a fornirci alcune risposte.
“Perché scrivo in dialetto? È una scelta che risale al 1985, anno in cui ho pubblicato Canti di petra lava. Proprio l’amico Scandurra mi avvertì in quell’occasione (cu’ t’u fa fari?, chi te lo fa fare?) della limitatezza del dialetto, che rischia di restare circoscritto e perciò poco conosciuto.
Ma i ferri fanu u mastru, si dice, e io ho trovato nel dialetto siciliano uno strumento per fare, controcorrente forse, ma in grado di dare forza alla parola, di restituirle potenza che è speranza. E questo è rivolto soprattutto ai giovani, che hanno sempre meno valori e spiragli.
Ridere sopra il dramma, dunque, ma colpire, ove necessario.
Sapreste tradurre, ad esempio, in modo efficace stanza scurusa? Stanza buia, in ombra? No, la valenza semantica è molto più ampia e copre un spettro emozionale, perché si può dire che fa scurari u cori, e si va oltre la mera traduzione in questo caso.
Come dicevo poco fa alla collega giornalista Mazzaglia, io sono uno studioso appassionato della lingua siciliana, anzi direi allammiccatu (da alambicco). E bisogna credere in quello che si fa per convincere gli altri. Il mio è un amore profondo, ragionato. Baudelaire dice che la poesia si fa col cervello, non soltanto col cuore. Allo stesso modo non c’è casualità nella mia scelta, ma studio e soprattutto passione.”
L’autore ha poi letto due poesie tratte dalla silloge, A pparrari semu tutti bravi e Jennuvinennu.
A seguire, ha intrattenuto il pubblico con alcuni brani tratti dal suo spettacolo “La giustizia e il sonno”.