DICERIA DELL’UNTORE

dicembre 5, 2009

Al Teatro Verga fino al 13 dicembre

DICERIA DELL’UNTORE
dal romanzo di Gesualdo Bufalino
pubblicato da Bompiani
adattamento teatrale e regia Vincenzo Pirrotta
scene e costumi Giuseppina Maurizi – musiche Luca Mauceri
movimenti coreografici Alessandra Luberti – luci Franco Buzzanca
con Luigi Lo Cascio
Vitalba Andrea, Giovanni Argante, Giovanni Calcagno, Lucia Cammalleri,
Nancy Lombardo, Luca Mauceri, Plinio Milazzo, Marcello Montalto,
Vincenzo Pirrotta, Salvatore Ragusa, Alessandro Romano
Mario Gatto, Salvatore Lupo, Michele Marsella, Giovanni Parrinello
produzione Teatro Stabile di Catania

 

 

Riuscita trasposizione teatrale del romanzo di Bufalino, ieri sera in scena allo Stabile. Densa e toccante l’interpretazione di Luigi Lo Cascio, in duetto con la Morte.

Intensa, forse appena oltre il necessario, la prova di Giovanni Calcagno.

Di seguito alcune recensioni.

 

 

 

Sembra più un lager un mattatoio un manicomio, che un sanatorio per ammalati di tubercolosi la scena ideata da Giuseppina Maurizi: un’alta cavea inclinata, bianca come le pietre di Siracusa, quasi un mini-teatro greco, fornito di scala centrale e, semi-nascosti, al di sotto, un gruppo di quattro musici e sul fondo uno schermo cangiante di colore a seconda l’umore dei protagonisti, agghindati per lo più con abiti o tute color corda. Come dei detenuti in quella Rocca della Conca d’Oro, fra Palermo e Monreale, in quell’estate del ’46, teatro della Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, romanzo in parte autobiografico, “ostico e onirico” secondo Vincenzo Pirrotta che ha messo insieme un non certo facile adattamento teatrale, curandone pure la regia e vestendo lui stesso i panni del Gran Magro con lo spirito d’un domatore da circo in frac bianco con tuba e bastone neri, avendo accanto un formidabile attore qual è Luigi Lo Cascio nel ruolo dell’io narrante. Un luogo sinistro questo sanatorio, “un livido colombaio di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l’eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d’annegati”, secondo la descrizione che de luogo ne fa Bufalino paragonandolo all’inizio ad una “vecchia tartana, un’arca in secco su un’altura alla fine di un’inondazione, abbandonata dai vivi…”.- Il bacillo di Koch che è nell’aria lo si percepisce danzare testardamente e inesorabilmente da un polmone all’altro dei ricoverati, come un tarlo che dilania il loro corpo e la loro anima. Credo sia stato per Pirrotta un lavoro immane toccare la visionarietà di questo testo barocco, espressionista, metaforico, eppure così reale che, come sappiamo, prima d’essere pubblicato da Sellerio nel 1981, è stato riscritto più volte in una lingua alta, ricercata, poetica, bufaliniana tout court. Conosciamo lentamente il cappellano militare padre Vittorio (Giovanni Calcagno), lo studente fuoricorso di medicina Sebastiano (Giovanni Argante), lo stesso Gran Magro che “giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione”, la puttana della Kalsa (Vitalba Andrea), la ragazza della città (Nancy Lombardo) che canta pure versi dell’autore, i due Luigi (Marcello Montalto e Salvatore Ragusa) e infine Marta (Lucia Cammalieri) la ragazza diafana di cui s’innamora Lo Cascio. Ed è su questo amore in sanatorio che scorrono via parecchie immagini dello spettacolo. Un amore sublime e sublimato che profuma di zagare e tuberose e che dopo vari incontri, anche al di fuori del sanatorio, Marta morirà fra le sue braccia in una pozza di sangue, qui senza mai dare un colpo di tosse, né tanto meno farsi udire dal pubblico della “prima”, costringendo qualcuno a lanciare verso il palco un lieve “voce, voce”. Di tutti gli ammalati solo Lo Cascio ritrova la salute, vissuta quasi con un senso di colpa, come una diserzione dal “noviziato della morte”, un tradimento involontario che richiede la testimonianza della “diceria”. Pirrotta regista ha cercato di riproporre i suoi stilemi etnici ed etnomusicali, con risultati spiazzanti rispetto alle aure bufaliniane. Mi riferisco alla danza delle otto maschere bianche con i simulacri degli scacchi come copricapo, le tarantelle canterine, le clownerie e le pantomine con trampolieri e prestigiatori, i musici in processione con i pupi in mano. Bella invece quella cascata di radiografie avvolgenti circolarmente Lo Cascio, che in chiusura lo si vede abbracciato alla sua Marta in rosso, come due innamoratini di Peynet. Non sono mancati alla fine numerosi applausi al Teatro Verga dove si replica sino al 13 dicembre.                                          

                                                                                                                                                                GIGI GIACOBBE

 

…il romanzo di Bufalino, col suo linguaggio immaginifico e barocco, con quel suo gusto introspettivo, di una introspezione acuta e sempre tesa a scavare nei meandri dell’anima, non costituiva un testo facile da portare sulla scena.
Grande scommessa del regista Vincenzo Pirrotta e del protagonista Luigi lo Cascio, scommessa vinta pienamente per un atto unico che ti fa trascorrere quasi due ore in un mondo surreale, quello di un sanatorio siciliano nel lontano 1946, un luogo dove la morte si frequenta ogni giorno e ogni giorno si mette in gioco la propria vita. Tra personaggi fantasma, larve umane e, interpretato dallo stesso regista, il Gran Magro, un direttore del sanatorio subdolo e senza pietà, Lo Cascio interpreta la vicenda del protagonista in modo sommesso e intenso, mentre scorre una vicenda non vicenda che si configura come un ineluttabile viaggio verso la morte. Unica possibilità di fuga? Amare. Marta è l’oggetto d’amore, ma nello stesso tempo triste metafora di un destino malefico. Il tutto sottolineato dalle musiche pacate, con accenni popolareggianti, tese a ricostruire un’atmosfera siciliana in una storia esistenziale di valore eterno, eseguite come pacata sottolineatura dell’esile trama.
Alla fine il Gran magro e la donna amata muoiono, ma qualcuno si salva. E va verso la vita dopo avere subito la magica, misteriosa attrazione verso la morte.
Sul palcoscenico resta Marta, a testa riversa, il vestito rosso passione e la lunga chioma giù, giù verso la misteriosa signora, che la accoglie, sensuale, tra le sue braccia.

                                                                                                                                                  SILVANA LA PORTA

Diceria dell’Untore, trasposizione drammaturgica dell’omonimo romanzo dello scrittore di Comiso Gesualdo Bufalino, che ha inaugurato la stagione teatrale con applausi scroscianti.

E’ l’estate del 46, è il racconto di un amore tra due ragazzi che vivono il dopoguerra, parla anche della morte perché la storia si svolge in un sanatorio esiliato su una rocca nel palermitano dove vivono i malati di tubercolosi, condannati dal mal sottile, che lottano per sopravvivere ma che alla fine soccombono. Lo Cascio è l’io narrante di questo atto unico, è il protagonista, in bilico tra il mondo dei vivi, la città, e quello dei morti, la Rocca. E’ innamorato di Marta, una sua coetanea che vive nel sanatorio e che ricorda con nostalgia cosa voleva dire assaporare la vita quando la tisi non la stava uccidendo.

Lo Cascio si trova perfettamente a suo agio a parlare la lingua onirica e a volte complicata, ma sempre incalzante di Bufalino. Vincenzo Pirrotta, il regista attore che ha firmato la trasposizione teatrale e che ha ritagliato per se, il ruolo del Gran Magro, tanto surreale e pomposo da sembrare così mortale e fragile, ha quasi danzato accanto al protagonista che ha scelto e sul quale ha immaginato il suo spettacolo, creando per Lo Cascio, un ruolo che gli calza a pennello. Con Diceria dell’Untore l’attore palermitano torna a lavorare in una compagnia, dopo due stagioni dedicate ai monologhi, ma anche in questo caso Lo Cascio risulta l’assoluto protagonista. E’ l’io narrante a momenti, poi vive la storia sulla sua pelle in un mix continuo di scene.

Gli attori della compagnia dello Stabile hanno vissuto la loro tragedia grazie ad una scenografia quasi viva, come la musica e i movimenti scanditi dal ritmo degli strumenti suonati dal vivo.  Sul palco, oltre a Lo Cascio e Pirrotta, salgono tra gli altri Vitalba Andrea, Giovanni Calcagno, Luicia Cammaleri. Tutti bravissimi.

Diceria dell’untore, al suo debutto, è stata commovente, dura, straziante, ma ha valorizzato una storia che forse molti avevano dimenticato in un cassetto e ha inaugurato con giusto piede la stagione teatrale dello stabile.

 

                                                                                                                                       MARIANGELA DI STEFANO

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PLAY BASSO 3.0

ottobre 25, 2009

 

 

 

La terza edizione del Play Basso ha visto gremita la sala del Palazzo De Cristofaro a Scordia.

Con la consueta perizia, Domenico Simone, curatore e moderatore della serata, ha offerto a tutti noi l’occasione di rendere omaggio a Salvo Basso.

Angela Bonanno ha letto poesie tratte da “Dui” di Salvo Basso.

Mario Giuffrida ha dato il suo contributo leggendo alcuni brani e ricordando l’impegno di Salvo nella promozione della cultura su tutto il territorio calatino.

Aldo Lanza, assessore di Militello, amico e collega di Salvo, ha regalato a tutti il suo ricordo di un viaggio di lavoro con lui su strade tortuose, fra discussioni e poesia, legandolo alla lettura di stralci tratti da “Quattru sbrizzi”.

Francesco Balsamo ha letto alcune poesie di Valentina Diana e di altri giovani autori tratte dal web.

Assya D’Ascoli, speaker di Radio Zammù, ha letto il racconto dialettale “Jacitu evi! Jacitu!” di Santo Calì, scrittore di Linguaglossa.

L’attore Giovanni Calcagno si è esibito in una toccante performance ispirata a un fatto di cronaca.

Mauro Mangano ha narrato una storia sufi “La falena e la candela”.

I 4Django Trio ( Sebastien Scuderi, Adriano Cristaldi, Giampiero Bugliarello) hanno aperto la serata con una particolare versione de “Les feuilles mortes” e ci hanno poi deliziato con altri brani francesi e di jazz manouche.  Bravissimi!

E io?

Anch’io, stasera, ho parlato di te. Ci siamo conosciuti l’11 novembre del ’97. Niente è casuale, niente mai è per caso: frugando tra vecchie carte un paio di giorni fa ho trovato una locandina che accomunava i nostri nomi in mezzo ad altri e riportava quella data. Una serata di vino nuovo e poesia, in cui abbiamo parlato tanto, non ricordo più di cosa. Di poesia, certamente.

Non potrei dire che sono stata tua amica, solo che avrei voluto esserlo. La tua scrittura è stata per me un preciso punto di riferimento, nei miei esperimenti in dialetto, perché è fresca, vivida, moderna, nel suo eludere convenzioni e  norme.

Non scriverò mai in dialetto come te, caro Salvo. Il piacere di frequentare spesso i tuoi scritti resta, immutabile.

Come immutabile è la poesia.

Orazio nei Carmina, parlando della poesia dice pressappoco: “è più durevole del bronzo, non potranno distruggerla né la pioggia né la furia del vento né gli anni innumerevoli… non morirò del tutto…”. 

E sono assolutamente certa che I POETI NON MUOIONO MAI perché la poesia è immortale.

Possiamo anche non sopravvivere a noi stessi, ma il frutto dell’ingegno non è fragile come il corpo, sfida i secoli, attraversa le ere.

Le parole belle sono come monili incorruttibili di cui abili artigiani-artisti ci fanno dono per aiutarci a vivere.
…e tu, Salvo, di quante parole ci avresti ancora fatto dono?

 

‘U POETA

 

Morsi ‘u poeta

comu mòrunu tutti

– macàri cu’ parra

ccu vuci d’angilu

si nni po’ jìri

‘n silenziu –

e l’autri ccà

‘mmenzu ‘e paroli

a ciculiari.

 

Splendida serata. Nonostante il compleanno in nero da “festeggiare”. La mia vita è costellata di compleanni in nero. Sussurri sottovoce “auguri”, cerchi di fare il conto (quanti anni sarebbero?) e poi trovi qualche motivo per tenerti aggrappata alla vita e per andare avanti. Il mio pensiero va a tua madre, Salvo, sempre in prima fila, partecipe, attenta, che vede restituirsi in queste occasioni minuscoli frammenti di te. Il mio pensiero va a tutte le madri. Io so. Conosco il loro dolore, il giogo da trascinare ogni giorno… Vorrei non conoscere quei gorghi, ma li frequento da anni.

Come alla fine del mio intervento, però, voglio chiudere con l’azzurro che ti dedico. Ciao Salvo!

IL VOLO DI ICARO

 

Ho studiato il volo

di tutti gli uccelli

l’aquila regale

e il falcone

al centro del cielo

e il tremante colibrì

e il gabbiano

abbandonato ai venti

nel facile planare…

 

ora sono io

padrone delle mie ali

aperte in una sfida

ora sono io

approdo nell’azzurro

uguale a un dio

 

debole una voce

e il sole è dentro me.

 

 

 


Play BASSO

ottobre 21, 2009

 

sconosciuto