
Come sempre le tematiche sono tante, ma prenderò in esame solo qualche spunto.
La lotta tra il bene e il male è certo un tema ricorrente in letteratura, ma anche nella produzione di King troviamo infiniti esempi: potrei citare senza difficoltà quasi tutti i suoi romanzi, dove il male cambia nome e forma, ma non natura: alieni, forze oscure, fantasmi, vampiri, o semplicemente il coagularsi della follia dentro di sé, non importa, c’è sempre un bersaglio contro cui indirizzare le proprie energie, per salvare il mondo, per salvarsi.
In particolare, però, lo stesso meccanismo, sostenuto dal contrasto di un fuori con un dentro, il pericolo e la paura a confrontarsi, ritroviamo in La nebbia, racconto contenuto nella raccolta Scheletri(Skeleton Crew).
Nel supermercato la convivenza forzata fa degenerare velocemente la situazione: il predicatore trascina le folle, brandendo il male e la colpa, in cerca del capro espiatorio, del sacrificio supremo che possa dare salvezza.
“”Morirete tutti là fuori! Non avete capito che la fine del mondo è arrivata? I demoni sono stati sguinzagliati! La Stella dell’Assenzio risplende e chiunque di voi oltrepassi quella porta verrà sbranato! E loro verranno a prendere quelli di noi che sono rimasti proprio come ha detto questa buona donna! Volete voi che ciò avvenga?” (The mist, pag. 110).

E quanto simile è questa solerte signora Carmody a qualsiasi capopopolo che arringa una folla spaventata e confusa?
Allo stesso modo, due fazioni, battisti e cattolici, compaiono anche in Cose preziose, quando la città, in preda alla follia, succube della presenza demoniaca, si spezza in due parti che si rivoltano l’una contro l’altra nello scontro finale.
“Ormai quel tratto del viale era un groviglio di esseri urlanti che si affrontavano a mani nude picchiando e strappando. Inciampavano gli uni negli altri, scivolavano nella pioggia, si rialzavano, menavano colpi alla cieca e ne ricevevano in cambio. Nei lampi accecanti sembrava che fosse in corso una strana danza, in cui si richiedeva di scaraventare il partner contro l’albero più vicino, invece di fargli eseguire una piroetta, o affondargli una ginocchiata all’inguine invece di spiccare un saltello” Needful Things, pag. 692).

E adesso torniamo a The Dome.
“La marmotta trottava sgraziata sul ciglio della Route 119 diretta a Chester’s Mill, anche se l’abitato distava ancora più di due chilometri e persino le auto usate di Jim Rennie erano solo una serie di luccichii disposti in file in un punto in cui la strada girava a sinistra. Aveva in programma ( per quanto possano programmare qualcosa le marmotte) di rituffarsi nel bosco molto prima di arrivare laggiù. Al momento però il ciglio andava bene. Si era allontanata dalla tana più di quanto avesse voluto, ma il sole era caldo sulla schiena e gli odori le sfrigolavano nel naso formando nel suo cervello immagini rudimentali che non erano proprio figure.
Si fermò e per un istante si drizzò sulle zampe posteriori. Gli occhi non erano più quelli di una volta, ma ci vedeva abbastanza bene da distinguere poco distante un umano che veniva verso di lei sul ciglio opposto.
Decise che sarebbe andata lo stesso un po’ più avanti. Alle volte gli umani lasciavano indietro cose buone da mangiare.
Era vecchia e grassa. Aveva razziato un buon numero di bidoni della spazzatura nella sua lunga vita e conosceva la via per la discarica di Chester’s Mill bene quanto le tre gallerie della sua tana; sempre cose buone da mangiare alla discarica. Ondeggiò soddisfatta tenendo d’occhio l’umano che sopraggiungeva sull’altro lato della strada.
L’uomo si fermò. La marmotta capì di essere stata vista. Alla sua destra e poco più avanti c’era una betulla caduta. Si sarebbe nascosta là sotto, avrebbe aspettato che l’uomo passasse, poi sarebbe andata a vedere se fosse rimasto in giro qualcosa di gustoso da…
Arrivò fin lì nei suoi ragionamenti -e compì altri tre passi dondolanti- anche se era stata tagliata in due. Poi cadde spezzata sul bordo della strada. Il sangue sprizzò e pompò; le viscere si rovesciarono sul terreno; le zampe posteriori scalciarono rapide due volte, poi si fermarono.
Il suo ultimo pensiero prima del buio che ci accoglie tutti, marmotte e umani, fu: Cos’è stato? (Under The Dome, pag. 3).
Tutto il romanzo si può condensare in quest’immagine (che trovo tra l’altro spaventosamente simile a Big Jim Rennie) di qualcosa che, senza alcun preavviso, si spacca a metà, mentre un equilibrio che sembrava stabile si incrina rendendo tutto inutile e vacuo.
Voi provate a chiedervi se siete dal lato giusto della Cupola, quello in cui l’autunno colora le foglie con le sfumature che ci stupiscono, quello in cui la luna e le stelle non sono di un inquietante fucsia, in cui Halloween non è un rogo impietoso, e in cui l’aria è fresca e buona da respirare e sa ricordarci quanto è indispensabile.
Un romanzo corale che descrive lo scivolare inevitabile di una società verso l’implosione: l’uomo è tendenzialmente proteso verso l’autodistruzione?
La cattiveria, la malvagità, il potere deflagrano facilmente in una comunità isolata: sono più forti o semplicemente si corre in maniera più spedita verso la tragedia?
E se Jim Rennie è l’incarnazione del male, che dire di Junior (potremmo giustificare la sua furia omicida con il glioma che gli divora il cervello), e che dire di Carter Thibodeau, disposto a tutto pur di respirare il potere da vicino e pur di respirare poi semplicemente aria.
La fine di Big Jim Rennie è una Nemesi inevitabile, in fondo muore per mano delle sue stesse vittime, che lo attorniano nel momento finale.
Pochi i superstiti dopo l’olocausto: anche Barbie, l’eroe-non eroe che ha trascorso 350 pagine in galera, sperimenta su sé le angherie che ha inflitto ad altri in Iraq.
E durante l’assalto al Food City vediamo
“…la bestia sregolata e insensata che può levarsi quando una folla impaurita viene provocata” ( Under The Dome, p.439).
Il formicaio sotto la lente di ingrandimento mostra il peggio di sé: paura panico e un’inutile fuga da se stessi. Ci viene in mente Il signore delle mosche, libro che evidentemente King ama (lo troviamo in Cuori in Atlantide).
E infine la malvagità senza compiacimento che è propria dei bambini, non importa se umani o alieni: chi di noi non ha -oh, ben nascosto sotto il tappeto- un episodio di stoltezza risalente all’infanzia? Un lombrico che si contorce nell’acqua ragia, una tana soffocata dal terriccio, un topo impazzito dentro la trappola… e il nostro sguardo che li sovrasta, con la freddezza e il distacco di uno scienziato che segue gli ultimi insulsi movimenti della sua cavia.
The Dome è un’allegoria, anche troppo scoperta, del pianeta Terra, le cui formiche non sanno, o fingono ancora di ignorare, quale sarà l’inevitabile fine a conclusione dello scempio.
La prevaricazione che da sempre governa il mondo alla fine lo distruggerà.
Qualcuno si è mai domandato cosa pensano le formiche? che valore abbiano le loro piccole vite?
I bulli, avvolti nella spessa coltre della loro alessitimia, non si chiedono cosa prova l’inerme vittima sacrificale al centro del cerchio di stoltezza. Eppure ciascuno è piccolo per qualcun altro, è più a Sud di qualcos’altro, è sotto l’impietoso microscopio manovrato da altri.
Basterebbe soffermarsi un attimo su questo semplice pensiero e avere come legge per sé poche parole “ non fare agli altri…”
Non importa se all’ultimo minuto si immagina Dio o altra entità o un rassicurante nulla.
Noi siamo qui, ora, con le nostre piccole vite, degne comunque di essere vissute. Per noi.
Se volete approfondire la tematica:

http://spazioinwind.libero.it/rfiorib/lettura/king.htm