Ringrazio Francesco Neglia per le foto della serata:
JENNUVINENNU – QUANDO LA PAROLA SI FA POESIA E LA POESIA CANTO
dicembre 11, 2010
“Jennuvinennu, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”
Incontro col poeta Alfio Patti
Introduce Giusy Liuzzo, presidente Archeoclub Catania
Relatori:
Dott. Santo Privitera, giornalista, scrittore
Gabriella Rossitto
L’incontro si concluderà con una performance culturale-musicale: “La religiosità nella poesia e nelle canzoni siciliane, interpretata e rivista da Alfio Patti”
Auditorium della scuola “Pizzigoni”
Catania
15 dicembre 2010
ore 17
JENNUVINENNU
dicembre 8, 2010
“Jennuvinennu: quando la parola si fa scudo e spada”
di ALFIO PATTI
martedì 7 dicembre 2010, ore 16,30 – Castello di Leucatia, Catania
Relatori:
Angelo Scandurra, poeta, scrittore
Clelia Tomaselli, scrittore, giornalista
Performance di cunti e canti sulla “Giustizia e sonnu” di Alfio Patti
La manifestazione rientra nell’ambito degli incontri promossi dalla Biblioteca Centro Culturale “Rosario Livatino”, in collaborazione con l’Associazione Culturale “Accademia del tempo”.
Ha introdotto la scrittrice Clelia Tomaselli.
Riassumo qui, con le limitazioni del caso, l’intervento di Angelo Scandurra.
“La poesia è simbiosi parola / musica, e ogni parola in poesia deve tradursi in musica.
Potremmo domandarci quale sia il motivo del recupero del dialetto in era tecnologica.
La parola desueta, dissanguata, non basta più, ha perso la forza semantica: per questo ci si rifugia nel linguaggio cifrato, nel dialetto.
Patti gioca con l’intelligenza, avverte, induce alla riflessione. Jennuvinennu, prima o poi, ci dice, qualcosa accadrà, qualcosa dovrà necessariamente cambiare. Sono parole che traducono emozioni, ma soprattutto speranza.
Il libro è scorrevole, forte; poggia su una struttura che, raccontando in modo gioioso e ironico, non afferma in modo assoluto e non prevarica il lettore, il suo giudizio, offrendogli piuttosto spunti e possibilità di riflessione.
Il tutto tramite l’ironia accattivante, cui si aggiunge l’autoironia: l’autore, portatore di intelligenza, diventa portavoce di riflessione per tutti gli altri.
Patti è solare, non ingenuo, è aperto e restio ai sotterfugi –mia nonna mi diceva che bisogna diffidare delle persone complesse, seriose, pervase da negatività.
A proposito della lingua, è da notare l’incisività di alcuni termini, uno fra tutti malasurtàti.
Ciò a cui deve tendere l’arte che non sia fine a se stessa è farsi frangivento rispetto ai luoghi comuni, alla stupidità banalità inutilità –specie della televisione, dove la parola è stata uccisa, perdendo intensità e vigore.”
Ma è lo stesso Alfio Patti, subito dopo, a fornirci alcune risposte.
“Perché scrivo in dialetto? È una scelta che risale al 1985, anno in cui ho pubblicato Canti di petra lava. Proprio l’amico Scandurra mi avvertì in quell’occasione (cu’ t’u fa fari?, chi te lo fa fare?) della limitatezza del dialetto, che rischia di restare circoscritto e perciò poco conosciuto.
Ma i ferri fanu u mastru, si dice, e io ho trovato nel dialetto siciliano uno strumento per fare, controcorrente forse, ma in grado di dare forza alla parola, di restituirle potenza che è speranza. E questo è rivolto soprattutto ai giovani, che hanno sempre meno valori e spiragli.
Ridere sopra il dramma, dunque, ma colpire, ove necessario.
Sapreste tradurre, ad esempio, in modo efficace stanza scurusa? Stanza buia, in ombra? No, la valenza semantica è molto più ampia e copre un spettro emozionale, perché si può dire che fa scurari u cori, e si va oltre la mera traduzione in questo caso.
Come dicevo poco fa alla collega giornalista Mazzaglia, io sono uno studioso appassionato della lingua siciliana, anzi direi allammiccatu (da alambicco). E bisogna credere in quello che si fa per convincere gli altri. Il mio è un amore profondo, ragionato. Baudelaire dice che la poesia si fa col cervello, non soltanto col cuore. Allo stesso modo non c’è casualità nella mia scelta, ma studio e soprattutto passione.”
L’autore ha poi letto due poesie tratte dalla silloge, A pparrari semu tutti bravi e Jennuvinennu.
A seguire, ha intrattenuto il pubblico con alcuni brani tratti dal suo spettacolo “La giustizia e il sonno”.
“Jennuvinennu” alla Biblioteca Concordia
ottobre 16, 2009
Stasera, 16 ottobre 2009, Alfio Patti ha presentato “Jennuvinennu”, la sua ultima silloge di poesie dialettali, alla Biblioteca di via Stella Polare, che ha preso il posto del cinema Concordia.
Ha introdotto la serata la bibliotecaria, che segnalo per la squisita ospitalità (sono arrivata in anticipo e ho potuto visitare la Biblioteca e scambiare due chiacchiere).
L’attore Aricò ha letto alcune poesie.
Patti infine, in veste di Aedo, ha messo in scena lo spettacolo “Giustizia e sonno”.
Presentazione di “Jennuvinennu”
ottobre 11, 2009
Venerdì 16 ottobre, ore 16,30
presso la biblioteca “Concordia” (ex cinema)
nel quartiere degli Angeli Custodi di Catania
via Stella Polare 43
info: 095/7232969
presentazione della raccolta di poesie in siciliano
“Jennuvinennu” (Edizioni Prova d’Autore)
di Alfio Patti
con spettacolo dal titolo “Giustizia e sonnu”
JENNUVINENNU di Alfio Patti
luglio 23, 2009JENNUVINENNU
(Poesie 2006-2008)
Alfio Patti
Prova d’Autore Edizioni
2009
Sarebbe estremamente riduttivo ritenere la poesia di Alfio Patti solo il “canto della nostra terra”.
L’uso del dialetto non impedisce infatti al poeta di indagare, con voce limpida e non retorica, nell’attualità e nel quotidiano.
Si può modificare con le parole il caos del mondo? si può scrivere per cambiare il mondo?
O, al contrario, si scrive
“ppi mpagghiazzari u munnu
di carti schifiati
[di nchiostru]
Lo scrittore è dunque un vate che si esprime nell’indifferenza generale, oppure, più lucidamente di altri, ha sentore dell’inutilità della parola scritta?
E, nella stessa poesia (A pparrari semu tutti bbravi), si sottolinea la monotonia del quotidiano, l’avvilente ripetizione di gesti consueti
“havi ‘na vita
ca talìu i stissi stiddi”
nella consapevolezza che parlare è superfluo, perché tutto scorre a suo modo, e le parole finiscono per diventare inutili. Che voce può avere il poeta in un mondo che si trascina in rituali sempre identici?
La parola può cambiare il mondo se nessuno si cura di essa, se
“nuddu talìa”
se poi le parole finiscono in fondo al mare
“sti paroli ‘n funnu ô mari”
come in Accura?
Così in Jennuvinennu, finite le illusioni, inavverate le promesse,
“Cci livàru u futuro…l’avviniri”
resta solo il disincanto.
Ricorre spesso, nelle note critiche a Patti, la connotazione di amarezza per descrivere la sua poesia; ritengo che l’amarezza lasci poco spazio alla speranza, rappresentata invece dai giovani, da coloro che rifiutano di abbrutirsi e reagiscono al disfacimento.
Un tema molto presente è infatti quello del deterioramento dei valori.
In Discoteca i giovani si stordiscono, “nsuggiati”, tentando di scacciare i rumori della giornata con altri rumori.
Cchi facemu? è un accorato appello contro
“i novi laparderi
ca ni volinu scippari
i sònnira”
e nessuno ha il diritto di far questo, di scippare i sogni, di calpestarli.
Così come si ribadisce in Nun facìti figghi:
“I carusi hannu a sunnari
ma s’allura ch’i l’accattamu a fari?”
Gli adolescenti confusi e smarriti, distratti dai non-valori (o disvalori che siano), dovrebbero invece essere protetti dal consumismo, dai riti collettivi della modernità.
Li ritroviamo altrove (E cantu) disincantati e poco disposti a credere alle favole:
“…carusi d’avannu
ca hannu l’occhi aperti
e non mangianu
cutulisci jittati d’ô çiumi”
unico spiraglio forse aperto sul futuro.
Particolarmente ricercata sul piano linguistico Marabecca, in cui lo sporgersi dentro la cisterna diventa l’affacciarsi sul mondo degli adulti, sull’orrido dal quale la fanciullezza è protetta.
E la cisterna diventa anche metafora dello scrutare se stessi, il fondo di noi, dove a volte si nasconde nel buio ciò che sconosciamo.
In Iù sugnu ‘n operaiu, l’onestà del duro lavoro si contrappone ai giochi del potere e della politica, in cui le solite facce
“strafuttinu l’umanità
e rridinu ‘ncoddu
a l’omini seri”
e l’uomo comune, al contrario,
“cerca
di sarvari nt’a cascia
dignità e rraggiuni”
L’umanità dolente è presente in Malasurtati, e di essa si fanno emblema i migranti, i malasurtàti, qui segnati da un destino senza speranza:
“unni mi mettu iù
u mari vota”
attratti dal modello occidentale di felicità, ma costretti a incontrare il nulla, perché la malasorte colpisce i più deboli.
Altrettanto dolente e amara in Calura (sull’esplosione dell’atomica) la rappresentazione della yubris, l’antica tracotanza dell’uomo che osa sfidare la natura con l’unico risultato di uccidere se stesso:
“si nni calau u munnu”
Anche gli elementi climatici si fanno presenze ingombranti; l’umidità delle notti catanesi in Finìu di stizziari:
“L’umidità accumpagna
a notti
e arrifrisca
sonni nfucati”
e ancora lo scirocco in Malifrùsculi:
“Fora,
u sciroccu
faceva scurcidda”
vento che si fa simbolo dell’inedia, dell’incapacità atavica di reagire alle cattive nuove, forse l’identico vento che
“…arruzzulìa
na lanna di buatta…”
La stessa invincibile indolenza -o impotenza- dipinta in Quantu voti, perché non si parte mai, si resta inchiodati senza muoversi, come soldati che battono il passo. Infine
“ti scura nt’ì pedi”
e resta solo la rabbia contro se stessi.
Ma è la sconfitta a generare poi l’insensibilità? Si ricerca l’assenza di emozioni solo per paura di lasciarsi coinvolgere, si mettono distanze fra sé e gli altri per “spegnere il cuore”
“Havi ca non chiànciu
ca macari m’û scurdai”
o ci si può solo pentire di averlo fatto:
“cchi piccatu
aviri travagghiatu tantu
p’astutari u cori”
E quasi a confermare quest’altalena di sensazioni, si rintraccia una sola apparente concessione all’eros in Mi dicisti:
“Squagghiài
nt’ô pani caudu,
comu cira ô suli”
Personalmente apprezzo in maniera particolare le riflessioni sulla scrittura, in cui la parola si fa protagonista, s’inventa e si rende attuale per riflettere su se stessa:
“quannu s’ammazza a parola
s’ammazza u pinseri”
La consapevolezza e il disincanto non possono zittire il poeta, né possono togliere valore al suo canto (Libbirtà di paroli):
“…mpagghiazzu
na maniata di paroli
ci çiusciu
e i brizziu ô ventu”
Solo ventuno poesie, dunque, ma che racchiudono il mondo.
La poesia di Alfio Patti
marzo 19, 2009Sabato 14 marzo alle Ciminiere, a Catania, Alfio Patti ha presentato il suo ultimo libro, “Jennuvinennu”, edito da Prova d’Autore. Relatori: Rita Verdirame, docente di Letteratura italiana all’Università di Catania; Giuseppe Gulino, già docente di Dialettologia all’Università di Catania. L’attore Orazio Aricò ha recitato alcuni componimenti poetici della silloge.
Conoscevo già, grazie ad Akkuaria, Patti come formidabile istrione, cantante, comico: questa serata mi ha dato l’occasione di incontrare anche il poeta.
AVI NA VITA CA NON CHIANCIU
Avi na vita ca non chiànciu
ca macari m’û scurdai.
Talìu di luntanu ogni ccosa,
ogni pirsuna.
Attruzzu i ggenti
e mancu i sentu.
Ora ca ci arriniscìi
cchi piccatu
aviri travagghiatu tantu
p’astutari u cori.
È UNA VITA CHE NON PIANGO – È tanto che non piango/ che l’ho dimenticato./ Guardo da lontano ogni cosa,/ ogni persona./ Urto la gente/ e neanche la sento./ Ora che ci sono riuscito/ che peccato/ aver lavorato tanto/ per spegnere il cuore.