Prossimi appuntamenti

marzo 31, 2013

BELPASSO

giovedì 4 aprile

ore 18.30

incontro con lo scrittore

Alfio Patti

per la presentazione del suo ultimo libro di poesie in siciliano

”Cca sugnu”

edizioni Prova D’Autore

relatrice Gabriella Rossitto

presso la sede della Mostra Permanente di Scienze Naturali

sede della Pro-Loco di Belpasso ,

Casa di Russo Giusti ,

via II Retta Levante 177

CATANIA 

venerdì 5 aprile

ore 18

Cieli violati (Poesie)

di Anna Vasta
Edizioni Ensemble

Interventi.
Maria Lucia Riccioli. Scrittrice
Luigi La Rosa. Autore Rizzoli

Letture di Eugenio Patanè. Attore

 Libreria “Catania Libri”

viale Regina Margherita 2H

CATANIA

sabato 6 aprile

ore 18

presentazione del volume di racconti

Storie di ordinaria Quotidianità

Akkuaria Edizioni

di Laura Rapicavoli

Relatore: Alfio Patti
Voce: Orazio Aricò
Ospiti d’eccezione
Luca Galeano (chitarra)
Joe Pedros (armoniche)

Herborarium Museum

via Crociferi 16


Presentazione della silloge dialettale “Ciuscia”

marzo 7, 2013

COMUNE DI PALAGONIA

ACCADEMIA DEI PALICI

presentazione del libro

Çiuscia

di Gabriella Rossitto

Prova d’Autore Edizioni

prefazione di Mario Grasso

sabato 16 marzo 2013

Aula consiliare

Comune di Palagonia

Piazza Municipio 1

ore 18

Moderatore Salvo Grasso

Interverrà il prof. Mario Grasso

Relatore: dottor Alfio Patti


Pomeriggio con l’autore

febbraio 8, 2013

mercoledì 13 febbraio

ore 17

Castello di Leucatia

Catania

Pomeriggio con l’autore

con Gabriella Rossitto

a cura di Santo Privitera

relatore  Alfio Patti


Presentazione “Cca sugnu”

gennaio 11, 2013

L’associazione Sicilia-India, nell’ambito delle attività culturali per l’anno sociale 2013, organizza :

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI 
ALFIO PATTI 

“CCA SUGNU” 

DOMENICA 20 GENNAIO 2013 ORE 17,00 
PRESSO IL SALONE DELLA CAMERA DEL LAVORO,CGIL, VIA CROCIFERI 40, CATANIA 

Introduce:
Dr. Gaetano Agliozzo, Segretario Gen. Funzione Pubblica CGIL
e
M°Luigi Troja. Maestro di Yoga e Karate, Presidente Ass.Sicilia-India

Presenta:
Gabriella Rossitto

Legge l’attore Orazio Aricò

Interverrà lo scrittore Domenico Seminerio

http://www.siciliaindia.it/

Sicilia-India presenta: “Cca sugnu” di Alfio Patti


Un articolo di Grazia Calanna

dicembre 13, 2012

 

 

 

giovedì 13 dicembre 2012

Università Nazionale Autonoma del Messico
“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”
Alfio Patti: “Ho ripercorso ottocento anni di letteratura, dalla scuola siciliana ad oggi”
 
Intervista di Grazia Calanna
“Allakatalla, quando la parola si fa poesia e la poesia canto”. È il titolo del corso tenuto da Alfio Patti, poeta, studioso della poesia siciliana colta e popolare all’Università Nazionale Autonoma del Messico (Unam), Dipartimento di Lettere Italiane della cattedra straordinaria Italo Calvino.
– In che modo sono state articolate le lezioni?
Con l’ausilio di una chitarra d’eccezione, usata da Joan Manuel Serrat, celebre cantautore spagnolo-catalano, prestatami per l’occasione,  e di un semplice powerpoint, ho ripercorso, a volo d’uccello, ottocento anni di letteratura a partire dalla scuola siciliana del Regale Solium di Federico II di Svevia fino ai giorni nostri. Le lezioni sono state divise in una parte esclusivamente teorico-didattica e un’altra artistico-musicale con canti e cunti attinenti alla lezione del giorno. Nella prima ho parlato della scuola poetica siciliana, dei poeti-giuristi e della poesia cortese e amorosa. Di seguito, ho tracciato il percorso del genere “Contrasto”, caratteristico della letteratura latina, medievale e romanza tanto diffuso in Sicilia. E, ancora, i poeti dal 1400 al 1600, con particolare riferimento a Bartolomeo Asmundo, Girolamo D’Avila, Giovanni Nicolò Rizzari e al principe dei poeti siciliani, Antonio Veneziano. La lezione ha visto l’intervento a sorpresa della prof.ssa Mariapia Lamberti, la quale ha parlato dell’amicizia del Veneziano con Miguel Cervantes. Apprezzato anche l’incontro dedicato all’ultimo petrarchista siciliano, Giuseppe Nicolosi Scandurra e alla poetessa Graziosa Casella, autrice catanese della prima metà del ‘900. Entrambi hanno cantato l’amore e la natura; il primo in modo platonico e ideale, la seconda in modo concreto e passionale. Non sono stati trascurati i poeti del Novecento, con particolare riferimento a tre grandi della nostra poesia: Vincenzo De Simone, parnassiano per eccellenza, definito il D’Annunzio di Sicilia; Ignazio Buttitta, il quale parlò del contingente e del precario con le sue poesie civili e sociali;  Mario Grasso, poeta fuori dal coro, tra simboli e polemiche, fino a Gabriella Rossitto (l’amore traslato), Marco Scalabrino (lo sperimentalismo) e al sottoscritto – in cui la forza della parola si fa scudo e spada”.
 Tra tanti, quali i temi che hanno destato maggiore interesse?
Quelli dell’amore e dell’ingiustizia sociale. Ecco perché nella lezione sui cantastorie, il “Lamentu ppi Turiddu Carnavali” e “La Barunissa di Carini” hanno attraversato i cuori degli astanti. I giovani messicani, assetati di conoscenza, hanno palesato verso la letteratura siciliana grande rispetto e ammirazione. Certo, occorre saper porgere la disciplina con garbo e metodologia ma soprattutto credendoci fino in fondo”.
– Quale la singolarità di questo corso?
“Il rapporto tra siciliano e spagnolo, non solo attraverso le parole ma anche attraverso il costrutto delle frasi e delle espressioni. Per esempio: il nostro “non diri mancu pìu” (non aprir bocca), in spagnolo si dice “no decir no pìo”; come quando una cosa fa male alla salute noi diciamo “mi fa dannu” in spagnolo “me hacedaño”. Così per le espressioni “mi affaccio da mia madre” o “Gesuzzu”, allo sternuto del bambino… Ho parlato in siciliano con molta disinvoltura e i ragazzi, tra i migliori del corso, coglievano al volo le battute”.
– La poesia, quella autentica, è generosa, sa donarsi pienamente fino a divenire un tutt’uno col lettore; schiude, senza posa, quella girandola di identificazioni che la rendono nostra per sempre. Questa premessa per avviare una riflessione sul valore odierno della poesia e sul ruolo che ha (o dovrebbe avere) il poeta.
“Credo che oggi, più di ieri, il poeta abbia un ruolo determinante nella società. I poeti non hanno fucili né cannoni ma incutono un certo timore ai “poteri forti” perché hanno la parola che arriva nel profondo delle persone e principalmente dei giovani che, educati alla non violenza e alla democrazia, vogliono riappropriarsi di quel dialogo che viene loro negato. Ecco perché scrivono poesia. A me la poesia ha dato più di un’amante fedele. È stata rifugio e pulpito, unico mezzo per comunicare in una società in cui l’uomo cerca l’uomo fra una verità virtuale e un’altra reale”.
GRAZIA CALANNA
Pubblicato da 

 

 

 

http://graziacalanna.blogspot.it/


Domani, a Siracusa… Letteratitudine vol. II

novembre 9, 2012

LETTERATURA E CANTASTORIE
a cura di Simona Lo Iacono
Siracusa – sabato 10 novembre ore 18,00

Uno dei blog letterari più noti d’Italia si fa libro. Per la seconda volta il suo creatore, Massimo Maugeri, dà alle stampe le discussioni più interessanti di questi anni, le interviste agli scrittori più famosi, i dibattiti, gli spunti, le idee maturate in uno dei luoghi virtuali più intelligenti e garbati dell’epoca internet.
Moderno cantastorie, Massimo porge al lettore l’idea che la letteratura è non solo comunicazione ma anche condivisione.
Per questo motivo ho il piacere di presentare “Letteratitudine, il libro” avvalendomi della collaborazione di un vero cantastorie. Alfio Patti, l’aedo dell’Etna, mi aiuterà a dare corpo ai sogni che Massimo ha creato in rete, a ricordare il percorso fatto, a rinarrare un’avventura iniziata sei anni fa e che è cresciuta fino all’internazionalizzazione, attirando su di sé la stima e il plauso dei più importanti critici letterari.
Vi aspetto quindi il 10 Novembre alle ore 18,00 presso la Galleria Roma, per un pomeriggio tra libri, poesie e cunti.
Simona Lo Iacono

SEGUI IL DIBATTITO SU LETTERATITUDINE-BLOG

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Scheda tecnica
Oggetto: Presentazione libro
Titolo: LETTERATITUDINE (Historica) – di Massimo Maugeri
A cura di: Simona Lo Iacono
Luogo: Piazza San Giuseppe 2 – (Ortigia) – Siracusa
Data:10 novembre 2012
Ore: 18,00

Organizzazione e Direzione: Corrado Brancato
Addetto Stampa: Amedeo Nicotra
Ingresso Libero

LETTERATURA E CANTASTORIE: Letteratitudine, il libro – vol. II

 


Pinsera di Alessandro Giuliana

giugno 21, 2012

A Palazzo Platamone, a Catania, il 19 giugno, è stata presentata la silloge poetica dialettale Pinsera, di Alessandro Giuliana, vincitore dell’edizione 2011 del Premio Martoglio di Grotte (Ag).

Ha aperto la serata il duo di chitarristi Roberto Funzio e Alfredo Longo, con un omaggio a De Gregori, a De André, e poi alla musica napoletana e siciliana.

Aristotele Cuffaro, ideatore del Premio, ha presentato la decima edizione del concorso, ricordandone la data di scadenza fissata per il 30 giugno. La premiazione avverrà in luglio a Grotte con l’assegnazione di premi speciali a grandi personaggi di prestigio del mondo dello spettacolo.

Dopo i saluti dell’assessore alla Cultura di Grotte, Salvatore Rizzo, il curatore della prefazione del volume, edito da Medinova, Alfio Patti, ha  sapientemente delineato la poetica di Giuliana.

Dopo aver chiarito le sfumature dei termini dialetto, vernacolo, lingua, a proposito del siciliano, ha puntato subito alla poesia di Giuliana che ha una forte valenza sociale, di denuncia e di accusa: sicuramente i giovani hanno il diritto, anzi il dovere, di cambiare il mondo.

Emerge l’attenzione ai diseredati, ai migranti, ai poveri, mentre viene meno la fede nella politica e resta solo la fede in Dio. Quando muore l’uomo, muore Dio, dice Giuliana, quando ci si dimentica cioè dell’umanità non si può più sollevare lo sguardo verso il cielo, e dunque occorre riportare l’uomo al centro di tutto, usando la parola come scudo e spada: la poesia, afferma Patti, è l’unica arma utile contro l’appiattimento e la violenza.

Lo stesso autore ha declamato i propri versi, con la forza e la passione che lo contraddistinguono, chiarendo anche alcuni aspetti della propria scrittura:

“Mi piaci stari nt’a pignata” –ha affermato- “non odio il mondo, amo la vita, l’uomo è multiforme e la varietà è meravigliosa”.

Aristotele Cuffaro ha infine ribadito che, in un mondo senza valori in cui i giovani non si riconoscono e non hanno punti di riferimento, la poesia di Alessandro Giuliana ha in sé un messaggio sociale forte.

Dalla prefazione di Alfio Patti: “… i Pinsera vanno e vengono e la mano scorre sul foglio bianco e i pensieri diventano parole e le parole si fanno musica per cantare la speranza di un mondo nuovo”.


CCA SUGNU di Alfio Patti

giugno 8, 2012

CCA SUGNU

ALFIO PATTI

PROVA D’AUTORE

2012

Cca sugnu, sono qua, eccomi. Già il titolo è una dichiarazione di poetica, esserci per parlare, per gridare, per agire. L’unica arma del poeta è la parola, e questa brandisce contro il disfacimento dei tempi e il sonno delle coscienze.

Cca sugnu chiude una ideale trilogia che comprende Nudi e crudi e Jennuvinennu: comune ai tre libri è l’impianto architettonico, il respiro che li percorre.

Anche qui troviamo tre sezioni, Cca sugnu, Sunteleya e Menzamài. Anche qui predominano le tematiche sociali e filosofiche, e si rintracciano percorsi evidenti ma anche criptici, sottotraccia, di difficile comprensione. Non è mai trasparente la poesia di Patti, lascia al lettore ampi spazi di interpretazione, ma anche di dubbio.

Mi sdirrubbàru! così esordisce il poeta, ma lo smarrimento dura solo un attimo, perché subito l’affermazione che ci accompagna, in varie sfumature di significato e di apparente negazione, si fa voce: cca sugnu.

Vivendo ci si prepara per la morte: arriva la fine della carusanza, del tempo spensierato in cui tutto sembrava possibile; arrivano la maturità e la vecchiaia e con esse il tempo delle grandi domande:

T’addumanni, allura

s’ha ’statu unu ntamatu

o unu arraggiatu.

(Cca sugnu)

Dal sanscrito, Patti mutua i concetti di Rajas, la rabbia, e Tamas, l’indolenza, fino al neologismo sattavàtu, da Satvas, che indica l’equilibrio.

Il siciliano, l’uomo in generale, credo abbia in sé entrambe le componenti, energia e apatia, e oscilla tra queste, nella perenne ricerca dell’equilibrio, di una qualche stabilità.

Si lavora una vita intera per conseguire questa lucidità:

T’allinàtu na vita sana

ppi essiri sattavàtu

p’attruvari dd’equilibriu

can non ha’avutu mai

(Cca sugnu)

 

solo per rendersi conto che si è lavorato invano

e a mènnula nun quagghia ancora

(A cira squagghiàu)

L’indolenza, quindi, sembra essere la caratteristica del nostro popolo: ma è davvero così o si è trattato di una strategia di sopravvivenza, “farsi canna” è adattarsi per non morire, per non farsi spezzare, annientare:

quannu tira ventu

fatti canna

(Sugnu seriamenti prioccupatu)

 

 

Ci si può chiedere se la rassegnazione non sia frutto dell’impotenza:

sapiri e nun putiri

vidiri e nun putiri

gridari paroli

all’aria can un c’è

(Manca l’aria)

 

e rendersi conto di come stanno le cose non basta a mutarle:

aviri cuscienza

e nun putiri fari nenti

(Sugnu seriamenti prioccupatu)

 

I proverbi si costruiscono sulla saggezza e sulla sapienza popolare e si tramandano per una loro attualità:

munnu ha statu e munnu è

 

niente cambia, cioè, dall’inizio del mondo.

Per questo il poeta è costretto a levare la sua voce, a gridare: è finito il tempo dell’acquiescenza. Qual è il ruolo della poesia? può esistere ancora una poesia civile? La poesia è

 pumata ppi feriti

can nun sànanu

(Sugnu seriamenti preoccupatu)

Sembrerebbe di sì, almeno se il poeta è nudo

Iù manìu i paroli

e mi nni fazzu scudu

nuddu è cchiù forti

di n’omu nudu

(Mi dicistiru)

orfano, cioè libero, se non è asservito al potere o a un particolare credo che potrebbe offuscare il suo giudizio. Tale condizione gli consente di parlare a voce alta senza temere niente, ma gli regala una grande solitudine

Sugnu cca

mi talìu a llatu

e nun vidu a nuddu

(Cca sugnu)

 

Il poeta, che osserva il mondo dalla sua postazione privilegiata, vive con consapevolezza il proprio isolamento:

sugnu sulu

suli semu

e… stàmuni muti

(Orfanu)

 

e allora viene il dubbio che la poesia non serva a nulla, che è meglio tacere, ora che tutto si confonde, che riesce difficile riconoscere i giusti dagli empi: stamuni muti, dice il poeta.

Oggi vittime e carnefici (ormai una cosa sola) rispettivamente glorificati e condannati dalla poesia, per la strana complicità creatasi, danno l’impressione che si sia trattato di parole inutili:

…miliuni di paroli

[…]

n’hannu sirvutu a nenti

(Orfanu)

 

Il poeta libero può dunque parlare senza infingimenti, la sua voce deve levarsi alta, senza più timore di dire, di scuotere le coscienze, di invocare il cambiamento.

È anzi la società ad avere paura dei poeti, armati solo delle loro parole, prigionieri nell’isola felice, l’isola della poesia, unico non-luogo dove si può godere dell’anarchia cosmica.

Proprio nell’oscillare tra l’urgenza di parlare e la disillusione, tra la rabbia che invoca il mutamento e la stanchezza del vivere che indurrebbe a tacere, ancora riscontriamo il dualismo rajas/tamas, in eterno conflitto.

Altri affondi ancora nel sociale, con l’ironica e amara condanna del clientelismo, in L’amicu, in cui viene descritta, quasi in un gustoso bozzetto, una malintesa forma di amicizia, lo scambio di favori al limite della legalità. Altrettanto ironica e amara è la chiusa: l’amicizia e la disponibilità finiscono quando si parla di lavoro, e a quel punto non ci si conosce più. La vera amicizia, secondo un proverbio siciliano, non è cosa facile: bisogna mangiare insieme tre tummini di sale prima che si possa parlare di reale condivisione.

E, argomento attualissimo, la nuova povertà, tratteggiata nell’omaggio a Enzo D’Agata (Puvirtà): prepariamoci poiché arriva in apparente benessere, come una malattia subdola e strisciante; la vera povertà era invece pulita e dignitosa, non essendo sostenuta dal desiderio di possedere, di apparire, di pavoneggiarsi, mentre ora si reputano indispensabili cose che non lo sono affatto.

Per questo occorrerebbe cambiare gioco (Cangia jocu), cancellare questa generazione di false coscienze, rinnovarle per non rassegnarsi sempre, accettando le apparenti verità (Mi dicìstiru) che ci vengono propinate in una reiterata violenza alla ragionevolezza e alle quali si può reagire solo brandendo la parola in una instancabile ricerca di senso.

Iù manìu i paroli /e mi nni fazzu scudu, ribadisce il poeta, così come proposto da  Domenico Seminerio nella prefazione a Jennuvinennu, seconda prova della trilogia, il quale aveva parlato di scudo e spada, espressione che mi fa venire in mente Martoglio, che adopera la stessa immagine a proposito del suo giornale, il D’artagnan:

 

Pri nui non c’è chiù porta sbarriata:

-Avanti, d’Artagnan, ca si’ lu scutu!

-Avanti, d’Artagnan, ca si’ la spata!

(A LU ME’ GIURNALI)

La sezione centrale, Sunteleya, è quella più breve ma forse più pregnante.

La stessa domanda, Signuri unni si’?,  che il poeta si poneva in Prijiera (Nudi e crudi), a metà tra grido e invocazione, compare qui in Quannu arrivi, connotata dall’eclissi di Dio che ha caratterizzato il ‘900, il secolo breve, come lo definisce Hobsbawm. Regole, divieti, rispetto e timore, sensi di colpa ingenerati da un  Dio che minaccia e punisce, che ha dato all’uomo l’illusione di un Nuovo Tempo, ma non ha poi realizzato le promesse. Il diavolo, invece, che ben conosce le debolezze umane, che sa approfittare delle zone d’ombra, si è insinuato in questo vuoto e ha potuto esercitare indisturbato il suo potere.

Ma se Dio non ci avesse fatti deboli, il male non avrebbe potuto prendere il sopravvento; se Dio fosse stato più presente, il diavolo non avrebbe potuto riempire di illusioni gli uomini. Ecco perché chi sbaglia può confidare nell’impunità, nella disattenzione di Dio (cu futti futti, ca Diu pirduna a tutti). Solo il poeta si accorge di questo? Ecco allora che la sensazione è quella di essere una pispisa sperduta su un atomo spaiato, sospeso in questo riflesso eterno: fragilità e impotenza, di fronte a uno scenario che confonde.

Ne A vilanza, di Pirandello e Martoglio, Saro di fronte al cadavere dell’amico esclama: Cca sugnu!… Non ti scantari, sugnu prontu!… 

Rinveniamo una inquietante analogia quando Patti, di fronte a una società agonizzante, esterna la sua denuncia, ma non si tira indietro, pronto alla lotta.

Del resto, il tempo è compiuto, i pianeti si stanno allineando e tutto prende una nuova direzione. Hyblaia, la dea della Terra, raduna i venti: è tempo che finisca il regno del nulla e cominci un’era nuova, una nuova età dell’oro, di unione e abbondanza. È ora di essiri sattavàti, è tempo cioè di ritrovare equilibrio e verità, di ricominciare daccapo. Il messia da attendere è però un uomo, non un dio, è un guerriero che, unendo la propria forza alla purezza di una vergine, darà origine a una nuova genia; si apriranno le porte a un moderno Umanesimo, un Rinascimento che muove i passi dall’arte, dove l’uomo torna al centro di tutto.

Le coscienze sane, che si rendono conto di ciò che sta accadendo, sono però incapaci di agire e questa consapevolezza genera avvilimento e dolore: ci si deve sempre piegare come le canne al vento, adeguarsi cioè supinamente senza reagire per poi risollevarsi quando tutto passa? È l’atavico atteggiamento del siciliano, assuefatto alle dominazioni e pertanto incapace di trovare in sé risorse ed energie o è piuttosto una forma atipica di furbizia, il camaleontico adattarsi al momento, aspettando tempi migliori? Si tratta quasi di un rovesciamento semantico dell’assunto gattopardiano per cui si cambia affinché nulla cambi: rimanere immobili invece, in attesa di un cambiamento sembra una tattica affinata nei secoli per garantirsi la sopravvivenza.

Poesia, amore, fantasia diventano sinonimi di ciò che di bello può riservare l’esistenza: ma la poesia è balsamo che non guarisce, che inebria di nulla e non risolve (Sugnu seriamenti prioccupatu). Anche l’amore, in questi tempi malati, è silenzio, un silenzio che si fa musica, difficile da comprendere. L’amore, appunto, che potrebbe salvare il mondo, non ha diritto di cittadinanza, è costretto a fuggire via (Menzamài). Allo stesso modo, la fantasia è obbligata  a cambiare Paese, non ha più un pubblico attento, solo un mendicante è disposto ad ascoltare. Vuol dire che solo gli animi semplici sono in grado di accettare e di capire?

La terza sezione si apre con Sdilliriu, in cui si può apprezzare l’espediente grafico di sfalsare i versi, con un occhio strizzato al lettore, compiacimento letterario che ci strappa un sorriso.

L’espressione A ppicca n’aviti… macari vuautri aviti figghi, che chiude la poesia Mi dicìstiru è dura e suona come un anatema: attenti a quello che fate, state facendo scempio del mondo, ma è proprio lo stesso che consegnerete ai vostri figli.

Figli ai quali, al contrario, il poeta sa benissimo cosa dire, quale lezione suggerire. In Curriti la corsa è metafora del vivere e presenta una serie di ostacoli che solo il coraggio può superare. Questa corsa ha per teatro Catania, con le sue Porta Uzeda, Porta Jaci, Porta Garibaldi.

Se all’inizio di questa lirica il poeta si rivolge a un generico uomo del mio tempo, di quasimodiana memoria, è poi nella propria realtà che si muove, nella città che altrove (Sdilliriu) viene descritta come fausa e buttana –e ritengo che solo chi ama possa dare giudizi del genere- una città perduta che ha tradito, perché si sognava diversa ed è densa piuttosto solo di promesse disattese. E ancora lo scorrere dei giorni, l’oppressione del quotidiano, con la sua monotona ripetitività, nell’attesa di un cambiamento, a volte solo agognato.

Per questo motivo l’esortazione da porgere alle generazioni future è quella di non arrendersi: imboccate la strada maestra, non fermatevi, non fatevi prendere in mezzo alle intemperie, agli impedimenti in cui è inevitabile inciampare, barriere di fuoco da saltare, e se la stanchezza vi sorprende, radunate le forze e ricominciate a lottare.

Curri figghiu miu…

Ora ca ti misi ô munnu

non ti fari pigghiari.

Fa’ bàttiri ddu cori ca ti desi

ìsili sti pedi e metticci l’ali…

 

La luce dei giorni chiari è la speranza, sempre presente in Patti, che infatti parla di sconfitta, non certo di fallimento:

A scunfitta è sapuri ca canusci

ma u fallimento, chiddu non t’apparteni

(Manca l’aria)

speranza che nemmeno gli avvenimenti odierni possono spegnere:

Ma tu

pensi ca…

televisioni, giurnali e bullittini

nni ponnu livari

di l’occhi

a luci

d’î jorna chiari?

(Ma tu)

dove forse l’unico  fallimento è solo la parola negata (Comu fazzu ad aviri pietà).

Stiamo a vedere, aspettando non si sa cosa… ma se il mondo non cambia nessuno cambia, e si continua a gridare parole all’aria che non c’è:

Di cangiari non si nni parra affattu

cangiari tu? Cangiari iddi?

U munnu non cangia e mancu tu u fai.

Perciò…

Aspittamu ca u tempu si sfrinzìa

e proprio l’aspittari t’arrizzetta

(Manca l’aria)

Di sicuro tutti noi siamo avviluppati in lacci, fili, vincoli che costringono a vivere ciò che non si vuole, e dai quali è difficile liberarsi. La madre come la terra: essere legati alla propria terra è quasi una condanna, ma se si deve lottare contro la vita, pur nell’andirivieni ripetitivo e inevitabile, si può trovare la forza di vincere:

Jennu e vinennu

avanti e arredi

cumu ‘n scravagghiu

ammenzu a stuppa

sugnu ancora cunvintu

di putiri vinciri a vita.

(Maliditti i fila)

Priparàti l’elencu, questo l’epilogo con cui l’autore ci congeda (Chiavìnu, e chiudu): è quasi un grido di guerra, ha un significato rivoluzionario, sovversivo, eversivo persino. Finito il tempo dell’attesa, occorre reagire, riprendere possesso della propria coscienza e della propria terra: il messaggio sotteso è forse prosaicamente “rimbocchiamoci le maniche, è ora di ricominciare”.

Questa silloge si presenta come una coraggiosa denuncia dei mali del nostro tempo, un grido di dolore e al tempo stesso di battaglia: una sveglia alle coscienze assopite, monito e incitamento, forte e spavalda come solo la parola del poeta può essere. Cca sugnu è pervaso da una sottile speranza, quella in una nuova alleanza, culminante nell’avvento di un uomo-guerriero, capace di rinnovare e di salvare.

Ironia e disincanto, pessimismo e fiducia, tutte le voci di Patti si rincorrono e si fondono armonicamente in una mai scontata unitarietà. Uno sguardo sui grandi temi dell’esistenza, dunque, che, nonostante il buio dei tempi odierni, ha una forza propositiva e lucida: ancora una volta si può credere che la poesia è in grado di cambiare il mondo.


ARSURA D’AMURI – omaggio a Graziosa Casella

Maggio 24, 2012

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Il piccolo teatro del Centro Zō alle Ciminiere è pieno, le luci si abbassano, gli artisti riaccendono di musica e parole l’atmosfera, suggestiva e magica.

Per la regia di Salvo Tomaselli, Alfio Patti ripercorre i grandi motivi della poesia amorosa siciliana: l’abbandono e il distacco dalla persona amata ovvero la spartenza, dallo sconsolato suono onomatopeico; la passione inascoltata, il sogno che si dissolve al mattino, i tormenti e le incertezze; la sfida alle convenzioni e alle mentalità retrograde in una eterna lotta tra cuore e ragione, tema quest’ultimo vissuto dalla poetessa alla quale è dedicato lo spettacolo.

È l’attrice Laura Rapicavoli a prestare la sua voce appassionata ai sonetti di Graziosa Casella, la poetessa catanese nata nel 1910 e morta nel 1960. Graziosa è costretta a vivere nell’ombra il suo grande amore: pur essendo vedova, paga la differenza d’età che oggi ci fa sorridere.

Non era lo stesso nella Catania degli anni ’50, nonostante la poetessa frequentasse attivamente i circoli culturali della città.

Lei si paragona all’autunno, il suo giovane amore ventottenne è invece la primavera:

E’ veru sì, s’avissi diciott’anni,

o puru vintott’anni, comu a tia,

non li patissi tanti disinganni,

né mi vinissi sta malincunìa.

 

 

Ah, si ssa vucca to non è sincera,

làssami stari pri la me svintura…

cu autunnu non s’accoppia a primavera.

 

Così recita un suo sonetto, reso in musica da Alfio Patti, attento ricercatore e cultore della sicilianità, che rivaluta le voci misconosciute a torto della nostra cultura.

Delle due raccolte di Graziosa Casella, “Ciuri di spina” e “Autunnu e primavera”, ci sono pervenuti solo nove sonetti.

L’omaggio si estende poi ad altre poetesse catanesi, Agata D’Amico, che ha scritto il testo di “Sonnu d’amuri”, e Caterina Nella Aiello.

La splendida voce di Gabriella Grasso ha proposto altri pezzi della tradizione siciliana, ma anche un brano tratto dal nuovo CD che si intitola Cadò

Denis Marino ed Emilia Belfiore hanno accompagnato la cantante.

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Cca sugnu

aprile 22, 2012

In una notte illune, in una data palindroma…

Grande successo di pubblico ieri sera alle Ciminiere per la presentazione di Cca sugnu di Alfio Patti.

Ha introdotto la dottoressa Daniela Saitta, in rappresentanza della casa editrice Prova d’Autore.

L’avv. Trantino ha presentato il libro; qui in sintesi il suo appassionato intervento.

“Un vero libro si legge a occhi chiusi… ci costringe cioè a interrompere spesso la lettura, chiudendo gli occhi per visualizzare immagini, per attingere al nostro vissuto, per fermare l’emozione che il libro ci sta donando.

Ritrovarsi nel libro di Alfio Patti mi fa pensare a una classe di scolari in cui il senso del dovere equivaleva alla trepidazione causata dall’apertura del registro: ecco, Alfio Patti risponde Presente! come Mario Gori diceva Semu cca!

Nonostante l’autore sia modesto, schivo, la sua risposta è pronta, e invoca una coralità che in Sicilia non sempre è presente…  con spaesata nostalgia –definizione di Rita Verdiramee passo discreto, felpato (in pigiama, oserei dire) egli ci convince che è possibile la sfida, anche se di fronte si stendono interminabili deserti di stoppa:

Jennu e vinennu

avanti e arredi

comu ‘scravagghiu

ammenzu a stuppa

sugnu ancora cunvintu

di putiri vinciri a vita.

 Ed è proprio questo l’orgoglio siciliano, anche se la città di Platone è crollata perché non era costruita sulla roccia, anche se gli amici che si dichiarano tali non lo sono affatto, specie nel momento del bisogno, e un proverbio siciliano dice appunto che occorre mangiare montagne di sale insieme prima che si possa parlare di vera amicizia.

Patti, palombaro e aquila insieme, si muove alla ricerca dell’equilibrio, sàtvas: e per contrastare la spirtizza, il malcostume, usa la parola, che è dono, anima. Il silenzio vale solo se è riserbo, o se non vi è nulla da dire. Se la parola manca, invece, è solo povertà, manca la musica della parola, ma viene a mancare anche l’azione: non è più tempo di farsi canna, contro gli ingannatori occorre farsi albero, lucerna in mano a Diogene, senza rimandare a domani. L’aspettativa è finita, caro Patti, il tuo confine è l’oltre. “

Presente in sala lo scrittore Domenico Seminerio, che è intervenuto parlando di continuità rispetto agli altri volumi della trilogia, ma anche di cambiamento: Patti si dichiara sconfitto, ma non fallito; disilluso, ma non rinsavito. E così deve essere: il poeta, pur osteggiato non può rinsavire.

Ha preso poi la parola lo stesso autore, chiarendo il concetto che sta alla base del libro, auspicando un nuovo umanesimo, un ritorno alla centralità dell’uomo, contro un avversario che prima si conosceva e del quale ora si ignorano i contorni. Quando mancano gli ideali, ma soprattutto la giustizia, l’equità, allora manca anche la pace.

Intensa la recitazione dell’attrice Laura Rapicavoli che, dopo aver letto alcune poesie tratte da Cca sugnu, ha regalato, assieme all’artista, un assaggio del nuovo spettacolo di Alfio Patti, “Arsura d’amuri”. Si tratta di un omaggio a Graziosa Casella, poetessa siciliana (1910-1960), ma anche alla poesia d’amore femminile. Lo spettacolo, che vede la partecipazione di Gabriella Grasso, Denis Marino, Emilia Belfiore, andrà in scena il 20 maggio al centro ZO delle Ciminiere.