JENNUVINENNU
(Poesie 2006-2008)
Alfio Patti
Prova d’Autore Edizioni
2009
Sarebbe estremamente riduttivo ritenere la poesia di Alfio Patti solo il “canto della nostra terra”.
L’uso del dialetto non impedisce infatti al poeta di indagare, con voce limpida e non retorica, nell’attualità e nel quotidiano.
Si può modificare con le parole il caos del mondo? si può scrivere per cambiare il mondo?
O, al contrario, si scrive
“ppi mpagghiazzari u munnu
di carti schifiati
[di nchiostru]
Lo scrittore è dunque un vate che si esprime nell’indifferenza generale, oppure, più lucidamente di altri, ha sentore dell’inutilità della parola scritta?
E, nella stessa poesia (A pparrari semu tutti bbravi), si sottolinea la monotonia del quotidiano, l’avvilente ripetizione di gesti consueti
“havi ‘na vita
ca talìu i stissi stiddi”
nella consapevolezza che parlare è superfluo, perché tutto scorre a suo modo, e le parole finiscono per diventare inutili. Che voce può avere il poeta in un mondo che si trascina in rituali sempre identici?
La parola può cambiare il mondo se nessuno si cura di essa, se
“nuddu talìa”
se poi le parole finiscono in fondo al mare
“sti paroli ‘n funnu ô mari”
come in Accura?
Così in Jennuvinennu, finite le illusioni, inavverate le promesse,
“Cci livàru u futuro…l’avviniri”
resta solo il disincanto.
Ricorre spesso, nelle note critiche a Patti, la connotazione di amarezza per descrivere la sua poesia; ritengo che l’amarezza lasci poco spazio alla speranza, rappresentata invece dai giovani, da coloro che rifiutano di abbrutirsi e reagiscono al disfacimento.
Un tema molto presente è infatti quello del deterioramento dei valori.
In Discoteca i giovani si stordiscono, “nsuggiati”, tentando di scacciare i rumori della giornata con altri rumori.
Cchi facemu? è un accorato appello contro
“i novi laparderi
ca ni volinu scippari
i sònnira”
e nessuno ha il diritto di far questo, di scippare i sogni, di calpestarli.
Così come si ribadisce in Nun facìti figghi:
“I carusi hannu a sunnari
ma s’allura ch’i l’accattamu a fari?”
Gli adolescenti confusi e smarriti, distratti dai non-valori (o disvalori che siano), dovrebbero invece essere protetti dal consumismo, dai riti collettivi della modernità.
Li ritroviamo altrove (E cantu) disincantati e poco disposti a credere alle favole:
“…carusi d’avannu
ca hannu l’occhi aperti
e non mangianu
cutulisci jittati d’ô çiumi”
unico spiraglio forse aperto sul futuro.
Particolarmente ricercata sul piano linguistico Marabecca, in cui lo sporgersi dentro la cisterna diventa l’affacciarsi sul mondo degli adulti, sull’orrido dal quale la fanciullezza è protetta.
E la cisterna diventa anche metafora dello scrutare se stessi, il fondo di noi, dove a volte si nasconde nel buio ciò che sconosciamo.
In Iù sugnu ‘n operaiu, l’onestà del duro lavoro si contrappone ai giochi del potere e della politica, in cui le solite facce
“strafuttinu l’umanità
e rridinu ‘ncoddu
a l’omini seri”
e l’uomo comune, al contrario,
“cerca
di sarvari nt’a cascia
dignità e rraggiuni”
L’umanità dolente è presente in Malasurtati, e di essa si fanno emblema i migranti, i malasurtàti, qui segnati da un destino senza speranza:
“unni mi mettu iù
u mari vota”
attratti dal modello occidentale di felicità, ma costretti a incontrare il nulla, perché la malasorte colpisce i più deboli.
Altrettanto dolente e amara in Calura (sull’esplosione dell’atomica) la rappresentazione della yubris, l’antica tracotanza dell’uomo che osa sfidare la natura con l’unico risultato di uccidere se stesso:
“si nni calau u munnu”
Anche gli elementi climatici si fanno presenze ingombranti; l’umidità delle notti catanesi in Finìu di stizziari:
“L’umidità accumpagna
a notti
e arrifrisca
sonni nfucati”
e ancora lo scirocco in Malifrùsculi:
“Fora,
u sciroccu
faceva scurcidda”
vento che si fa simbolo dell’inedia, dell’incapacità atavica di reagire alle cattive nuove, forse l’identico vento che
“…arruzzulìa
na lanna di buatta…”
La stessa invincibile indolenza -o impotenza- dipinta in Quantu voti, perché non si parte mai, si resta inchiodati senza muoversi, come soldati che battono il passo. Infine
“ti scura nt’ì pedi”
e resta solo la rabbia contro se stessi.
Ma è la sconfitta a generare poi l’insensibilità? Si ricerca l’assenza di emozioni solo per paura di lasciarsi coinvolgere, si mettono distanze fra sé e gli altri per “spegnere il cuore”
“Havi ca non chiànciu
ca macari m’û scurdai”
o ci si può solo pentire di averlo fatto:
“cchi piccatu
aviri travagghiatu tantu
p’astutari u cori”
E quasi a confermare quest’altalena di sensazioni, si rintraccia una sola apparente concessione all’eros in Mi dicisti:
“Squagghiài
nt’ô pani caudu,
comu cira ô suli”
Personalmente apprezzo in maniera particolare le riflessioni sulla scrittura, in cui la parola si fa protagonista, s’inventa e si rende attuale per riflettere su se stessa:
“quannu s’ammazza a parola
s’ammazza u pinseri”
La consapevolezza e il disincanto non possono zittire il poeta, né possono togliere valore al suo canto (Libbirtà di paroli):
“…mpagghiazzu
na maniata di paroli
ci çiusciu
e i brizziu ô ventu”
Solo ventuno poesie, dunque, ma che racchiudono il mondo.