Articolo su “La Sicilia” del 22 aprile 2010

aprile 25, 2010
 
Palagonia
La biblioteca apre le porte a iniziative culturali

Giovedì 22 Aprile 2010 Catania (Provincia), pagina 48 e-mail print

L´incontro culturale in bibliotecaLa biblioteca ha aperto le porte, a Palagonia, agli incontri letterari e culturali. All’iniziativa – promossa dall’associazione Artisti e Creativi, in collaborazione con l’assessorato comunale alle Attività educative – sono intervenuti numerosi cittadini, oltre ai bibliotecari municipali, Lia Cucuzza e Nello Zapparrata, che hanno coordinato le attività. La dott.ssa Cettina Tiralosi ha ricordato, con vari supporti multimediali, la figura di Emilio Greco, il grande artista catanese, disegnatore, scrittore e scultore. Uno spazio è stato riservato alla presentazione di alcune opere poetiche (“La bimba invisibile” di Angela Agnello, “Azzurro gusto” di Mariella Sudano e “Segrete stanze” di Gabriella Rossitto) con gli interventi e i commenti di Vera Ambra e Pippo Di Noto. Le poesie hanno anche ispirato un recital dell’attrice Veronica Carfì. Sui contenuti grafici delle opere si è soffermata, infine, la scrittrice Giovanna Vindigni.

LUCIO  GAMBERA

Recensione a “Segrete stanze”

aprile 17, 2010

 

SEGRETE STANZE di Gabriella Rossitto – Ed. Akkuaria, 2008

E salvami ti prego

non da mostri orrendi

ma da me

Se si vuole conoscere la cifra di G. bisogna partire proprio da questi tre versi, in cui sono presenti gli elementi fondanti della sua parola, del suo pensiero, della sua essenza:

                              – l’aspirazione al superamento di ciò che di oscuro, di magmaticamente  invischiato, l’ animo suo racchiude;               

                              -la consapevolezza di non possedere gli strumenti idonei a raggiungere l’obiettivo, perché i nemici non sono mostri esterni, ma nemica le è una parte di sé, quella parte che continua a sfuggire all’ordine e alla chiarificazione che la ragione vorrebbe imporre;

                             – la centralità di un io che si illude di potersi muovere compostamente nel presente, mentre sa di non avere ancora reciso il cordone ombelicale con il suo passato, con un passato generoso, per alcuni versi, e quanto mai crudele e avaro, per altri.

         Il fatto è che G. non ha ancora fatto bene i conti con la sua vita, non è riuscita a spiegarsi perché nella sua esistenza ci siano stati accadimenti  il cui senso le resta oscuro, che non riesce  a decodificare,  a far proprio, e di cui  la sua poesia è sostanziata e  pervasa .

        Poesia fortemente contrassegnata dalla dialettica degli opposti: da una “terra opprimente”, che ha scordato e fatto scordare il colore del cielo, e  dall’indulgenza del vento, trascrizione semantica  dello slancio vitale, del mutamento interpretato come crescita e positiva trasformazione, benché  non  se ne possa ipotizzare, aprioristicamete,  né  direzione  né  meta.

       L’aspirazione a superare questa opposizione si rivela nella ricerca, sotterraneamente affannosa, di un “apollineo” a cui la mente, per cultura e per bisogno intrinseco ed  etico,  mira, pur consapevole  che il cuore metterà in atto tutte le strategie per vanificarne la riuscita.    Ma, qualunque sia l’esito del percorso del vento, esso rappresenta, sempre e comunque, qualcosa di desiderabile, di compensativo, perché si contrappone alla rigida immobilità della terra, che, anche quando è produttiva, non ha nulla di consolatorio, se  fa crescere bene “gigli impertinenti” dall’ “intollerabile profumo”, se permette che una bianca margherita muoia senza ragione, se ci concede di stare in un tempo  fatto di tanti  attimi di  “perenne/affanno”.

       I versi citati appartengono tutti  alla sezione Soffitta  e  si  potrebbe obiettare che pretendere ordine in una soffitta è irrazionale, illusorio, innaturale, perché la soffitta è il luogo in cui gli oggetti vengono temporaneamente posti alla rinfusa, in attesa di una più stabile sistemazione che  quasi sempre non arriverà mai.

L’osservazione è giusta, ma è un fatto che nelle liriche del Soggiorno la sostanza profonda della poesia di G. non muta poi tanto . La  solarità del primo testo è, infatti,  subito soffocata dalla nuova valenza assunta in questa sezione  dal vento, che qui è  diventato  o capriccioso  o  espressione della collera di Dio, i cui occhi socchiusi  producono, anzi determinano, il buio “sullo stupore/ dell’universo”, ed è negata dalla presenza silenziosa o dell’amico“perduto da tempo” o dalla creatura che al  momento  della partenza/dipartita ,  nella “fretta sconnessa”,  non ha portato con sé che  parole  prese a caso.

       Pungente e sarcastico si rivela  il dialogo in “Tutto bene” , la lirica del controcanto, dell’interlocutore  (che per me è un’interlocutrice!)  che si autoinganna  per essere più convincente verso “l’altra”,  per riceverne,  quando “ non c’è / più tempo”,  la parola dell’approvazione,  appagante  benché tardiva.

       E  anche “Il primo natale” ha poco di  rassicurante. La madre, china  sul… piccolo  cuore” del figlio,  è  figura  dolente, perché, oniricamente, Maria è già fuori dalla  serena  situazione contingente, se, mentre bacia  le “minuscole mani” /ferite dal mondo”, vede “ sulla fronte/sottili rivoli rossi ”.

     La presenza della donna,  nel duplice ruolo di  figlia  e  madre/mamma, è una costante  nella produzione di G.  Quasi sempre si tratta di donne portatrici di sofferenza,  sia per ciò che è, sia per ciò che poteva essere e non è stato, sia, ancora, per ciò che è stato, mentre si desiderava che fosse altro o, meglio, che non fosse.

     La donna, la tensione verso Eros, l’irrompere imprevisto e potente di Thanatos, la ricerca  continua del bello, del giusto e del bene nella natura e nelle persone, si rincorrono continuamente nei locali di questa casa-mondo, locali  disposti  in  modo da creare  una croce dai bracci diseguali, come di  immagine  emergente da una boccia d’acqua,  il cui  asse orizzontale, costituito dalle stanze “buone”, borghesemente denominate, è doppio rispetto a  quello verticale, che va dalla soffitta fino alla cantina, passando attraverso il ripostiglio, luogo di intersezione delle coordinate .

La studiata disposizione dei locali e il numero costante di liriche inserite in ogni locale  potrebbero far pensare al superamento della dicotomia prima evidenziata, ma l’ordine e la simbologia numerica giocata tutta sull’uno, il Proemio, e sul nove e suoi multipli, le liriche, ( 63 è il prodotto di  9×7, mentre 9 è la somma di  6 +3 ), restano aspirazione, non espressione del raggiungimento dell’obiettivo. La conferma che non ci sia l’auspicato “idillio” finale ci viene proprio dalla disposizione dei locali  nell’asse verticale, soffitta, ripostiglio, cantina: disordine provvisorio in soffitta, collocazione affrettata  di oggetti nel ripostiglio per mantenere sgombri i locali degli altri ambienti disposti nell’asse orizzontale,  rimozione di Tutto  in  cantina, il posto più buio, il sottosuolo, dove prende corpo la rappresentazione sensibile dell’Es.

Maggiore leggerezza, ma uguale disincanto, troviamo nelle poesie della sezione Cucina, dove G.  cerca con ogni mezzo di essere quotidiano raccordo anulare di affetti.  Ma anche qui,  ancora una volta, si registra l’inadeguatezza, o meglio, il convincimento della propria inettitudine all’esecuzione dei ruoli tipici del femminile, inettitudine enfatizzata  con i toni lievi  e accattivanti dell’autoironia: la torta da lei preparata viene subito giudicata “malfatta”, l’energia spesa per quel “capolavoro del nulla /opera somma di stupidità” è dichiaratamente “sciocca”. Né hanno sorte migliore le sue ciambelle, che, insensibili ad ogni sortilegio, all’amore e alla dedizione  di cui sono sostanziate, si ostinano a non lievitare, segno evidente, questo, che lo “streben” è  insufficiente, vano, fallimentare, se mancano competenze “altre”.

      I testi sicuramente più inquietanti appartengono alla sezione Cantina, al luogo  sotterraneo, dove le pulsioni funeree si manifestano nella dirompenza della loro forza,  come testimonia la ripetizione della parola “imputridite”, comune sia alla poesia che apre il gruppo, “cose imputridite”,  sia  a  Ritorni,“foglie imputridite”.

Diverse liriche  appartenenti a questa sezione  evidenziano la perdita, l’assenza  di luce, il caos che l’ordine sintattico, inseguito con cura e attenzione quasi maniacali, non sa trasformare in cosmos. Mi riferisco in particolare ai testi  “Stiletto”, “Segni”  ed “ Eclissi”: nel primo testo i versi  “si sopravvive a tutto / tranne che a se stessi”  assumono una valenza di assoluta lucidità nell’analisi della condizione umana; nel secondo gli oggetti giornalieri acquistano un aspetto  inquietante, sono segni  di una casa, che, malgrado gli eventi tragici, per la forza intrinseca alla vita stessa, “respira” ancora, anche se “non trova pace”;  nel terzo, infine, si urla che  “bastano piccole distrazioni” … “per provocare catastrofi immani”.

Ma quali sono queste immani catastrofi? La perdita di una persona cara, la caduta di una foglia, la tragedia della margherita, la  morte di Cristo, il fallimento, debitamente previsto, di un sogno, tanto più caro quanto con più ostinazione accarezzato.

Tutto questo si agita nella poesia di G., caleidoscopio in cui macro e microcosmo   coesistono, si condizionano  reciprocamente, si incrociano. Va sottolineato, però, che il  riferimento cristologico,  palese o criptato che sia, non dà mai  né la  speranza gioiosa in  una renovatio rerum né la consolazione di poter approdare a un aldilà dove ansie e angosce terrene possano finalmente placarsi, come chiaramente dimostra “l’apparire di angeli/poco confortanti”.

      Vena ironica e disincanto, leggerezza e pensosità, bisogno di cielo e attaccamento  alla terra, presenze ctonie e superne, sono il tessuto connettivo di questa silloge poetica che potrebbe trovare il suo sintetico commento nei tre versi di Barbery:

                      “Sogni le stelle

                        nella boccia dei  pesci

                        rossi finisci”. 

RITA SPECCHIALE


SOGNI E LUCI

aprile 17, 2010

                  

 

  

SOGNI E LUCI: LA POESIA DI GABRIELLA ROSSITTO

Recensione a “Il bianco e il nero (breve viaggio dal mito al sogno)” di Gabriella Rossitto

 

E’ sempre impegnativo il dono d’un libro: s’aggiunge alla congerie di altri volumi, accatastati gli uni su gli altri, o scorre di propria linfa, ha un significato nell’indistinto? Non lo si sa, se non lo si vive. Se è poi un libro di poesie, il dramma è immenso. Oltre il Minosse dantesco, vi può essere l’Elisio della comprensione? Interrogativi senza razionale risposta. Appelliamo quindi il profondo, gli dèi antichi. Essi rispondono, essi tutto decidono.

Dalle pagine del volume “Il bianco e il nero – breve viaggio dal mito al sogno”, di Gabriella Rossitto, silloge vincitrice del premio internazionale di Poesia “I Siracusani” nel 2001, sorgono tali terrifiche domande. L’autrice, che è insegnante di professione, ci parve frammista di timidezza e discrezione, nello stile elegante e garbato delle giovini donne della provincia etnèa, le quali hanno scritto forse le pagine più vive della nostra storia antica e recente, nella società come nella letteratura. Non v’ha dubbio che tale raccolta di liriche, la quale rivela il profondo travaglio interiore dell’autrice ed una lunga dimestichezza cògli autori della classicità, è destinata a meritarle quella notorietà, mèta oggidì quantomeno offuscata dal chiacchiericcio della nullità dell’immagine, che “la più alta forma di espressione umana, la poesia” (bellissima definizione di Maria Luisa Spaziani), può donare.

Leggiamo: “Bionda Cerere \ stagione accesa \ madre della terra \ facile preda del dolore \ anche una dea… per valli spente \ vaga una speranza \ e si consumano i passi \ si spegne ormai \ la voce”, mentre nello sfondo “bionde le messi \ che ondeggiano \ al vento”: è quella Kore donatrice di vita, apparente quale figura mitopoietica del sogno nelle già ubertose terre della nostra Sicilia ellenica. Una indagine che l’autrice imprende con convinzione e passione. “…E invece viaggio il mare \ il sogno \ e non c’è approdo \ al mio ritorno”: nel trascorso violento delle vicende di Ulisse, un incarnato di infinito si stende, senza confini.   La Rossitto indulge, appar chiaro, in codesto ondeggiare quasi di vascello, forse nella consapevolezza che della apparente assenza dei colori -ella è appassionata di fotografia, trovando nei due antitetici luce e tenebre, un mezzo congeniale di comunicazione- può sceverarsi una spiegazione, o meglio ancora, un intricato percorso vitale. E’ sintomo di macerata ricerca, introspezione profonda, ove il tema della morte appare e fa capolino non di sovente, ma nella permanenza di un triste sorriso.

Così la sensualità di donna mediterranea, nascosta, velata e rivelata nel mistero: “il tuo esser fatto \ di materia impalpabile \ concreta divina \ meraviglia \ il tuo esserci per me \ ma non per me \ mio \ ma solo in prestito”.  Consapevole ella appare della fragilità del poeta, della esistenza medesima del genere umano, della a volte assoluta inconsistenza del tutto, della infinita sofferenza di ricostituire il percorso: in una lirica di agghiacciante e sublime verità, ella lo asserisce con semplicità: “i frammenti di me \ giacciono attorno \ non numerati \ li osservo \ con inutile attenzione \ per quanto paziente \ un dio \ non saprebbe ricomporli”.

A questo punto, il poeta è vinto. L’essere umano è avvinto, scarno fango e però pronto per la risurrezione. Autoplasmata dal Dio medesimo che è in noi. Architetto dei mondi, che ha “perduta la \ geometria \ il senso \ l’arcana matrice \ del disegno…”, può ex novo insufflare l’alito della vita e ricongiungerla in quella trama impalpabile, tenuta assieme còlla forza dell’amore. Quell’amore che, oltre gli estremi del misticismo arcano, è un coacervo di colori. Gabriella Rossitto forse tende a celarli, ma a noi piace rammentare, con le parole

di quel grande maestro che è Giuseppe Ungaretti, che “Ogni colore si espande e si adagia \ negli altri colori \ Per essere più solo se lo guardi” (Tappeto, ne L’Allegria). Dònde la solitudine del poeta il quale, avendo superato le porte Scee della conoscenza intima, è affatto unico e solo, innanzi al mistero, innanzi alla pugna dello spietato, e quanto sfortunato e lacrimevole nel suo cogente destino, Achille.

Il viaggio poetico di Gabriella Rossitto echeggia di inquietudine e sensi segreti: qui è ascosa magna pars della bellezza della silloge. Ella non dice pur dicendo, ella suggerisce non mentendo, ella assevera tacendo. “Addormentarsi \ nella frescura \ così semplicemente \ e non tornare”: echi arcani risuonano magicamente, in quel colore delle parole che già il brillante Eduardo De Filippo cercò di sintetizzare, in una celebre lirica. Qui sta il presente ed il futuro, nel magico passato di chi s’accinge a schiudere l’universo mondo della propria spiritualità, attraverso la poesia. Intuire, tentare di intuire, la verità. Quella soglia segreta oltrepassata la quale l’oscuro è frammisto colle ombre, prima dell’eternità.

E però per una donna, ci ha suggerito con civetteria frammista ad orgoglio femmineo la scrittrice Amalia Guglielminetti, “le verità sono quasi sempre le nostre peggiori nemiche, le intriganti litigiose che si intromettono nelle cose nostre più intime e più care per suscitar gelosie, diffidenze e rancori” (in Scherzi di guerra, da Le ore inutili). Alfabeto del sentimento, ove la poetessa Gabriella Rossitto si intravvede quale occhio di piccione, intenta ad osservare lo svolgersi degli eventi: è uno schermo rabescato, poiché ben protagonista ella traspare, dalle vicissitudini che intende rendere universali. “Vivo nel sogno di un’ombra nell’acqua”, dirà Pirandello in una delle ultime liriche sue pubblicate: non potremmo noi fragili fibre dell’essenza, affermare il medesimo, oltre ogni rito che suscita soltanto apparenze di compiacimento, oltre le stantìe e solforose stanze che inchiodano gli animi al ripetitivo moto dei corpi astrali, senza vita ove non siano energicamente mòssi dal Verbo sacro, e quale verbo sacro, di Afrodite?

Ripeteremo dunque con l’inno di Proco, ultimo guizzo dell’antichità: “Cantiamo l’incanto dai molti nomi… a vedere le stanze di fuoco sfavillante della madre… a tutti premono le opere di Citerea produttrice d’amore” (vers.di E.Zolla). Così, mentre fra il bianco e nero delle poesie di Gabriella Rossitto “il sogno di cera \ si scioglie \ nell’abbraccio del sole”, avremmo ancora una volta raggiunto quel culmine di Natura universa, ove forse solo è l’ultima pace, il convegno finale delle bianche fantàsime: non prima però, di narrare ancora ed ancora (satis est, satis est…!), d’amore.

 FRANCESCO GIORDANO

 


Percorso di donna

aprile 15, 2010

 

PERCORSO DI DONNA

di Mariella Sudano

Il bianco e il nero si avvicendano in intrecci imprevedibili, immagini e segni che graffiano nel profondo. Astratto e figurativo convergono e si distanziano in apparente contraddizione.

C’è, nell’opera grafica di Mariella Sudano, il recupero dei ricordi, in un viaggio dentro  di sé  fatto di forza e di dolcezza insieme.

Non il colore a distrarre, non i mezzitoni e le sfumature: solo il contrasto assoluto e perfetto a segnare, a delimitare strade tortuose raffiguranti l’inconscio. L’inespresso prende vita, l’indicibile assume finalmente una forma.

Il viaggio si snoda tra passato e presente, altalenando profondità misteriose e verità evidenti.

Una donna è infatti mistero e magia, non si svela e non va compresa, ma solo amata.

GABRIELLA ROSSITTO

 


Articolo su Nuova Scicli Ondaiblea

aprile 13, 2010

A Palagonia presentati

“Azzurro Gusto” (Mariella Sudano)

 

e “Segrete Stanze” (Gabriella Rossitto)

 

 

Domenica a Palagonia presentazione di “Azzurro Gusto”, di Mariella Sudano e “Segrete Stanze”, di Gabriella Rossitto, per le Edizioni Akkuaria.

Giovanna Vindigni e Pippo Di Noto hanno recensito le due opere, che presentiamo ai lettori di Ondaiblea.

s. m.

Azzurro gusto (Mariella Sudano)

Apparentemente giocoliera, sperimentale, figurativa; ad una più attenta lettura ci accorgiamo come s’insinua, profonda, nelle radici del cuore.

La dichiarazione d’intenti è già nel titolo della raccolta; una forma metrico/stilistica: la sinestesia, abito di chi rappresenta le contraddizioni esistenziali.

E pregna di sinestesie, coerentemente, non è solo la poesia che dà il titolo alla silloge, ma l’intera raccolta, sino alla fine.

Poesia che si arricchisce di comunicazione non verbale.

Non solo parole, ma spazi vuoti, pause, enjambement, uso del diverso font, a rafforzare l’effetto del suo dire. Contornato d’arabeschi, anch’essi metafora di danza e d’aria.

 Miscela

variopinta

palpabile

disegna arabeschi

d’aria da bere.

È nel volo

che voglio abbracciarti.

Sporcati la bocca

del colore della gioia.

Sporcati!

Ti appartiene

 

 Parole e forme in libertà si inseguono in tutto il libro, linee sinuose ed eleganti sottolineano l’“Azzurro gusto” dell’autrice e così… semplici disegni astratti celano e rivelano, al tempo stesso: ali di farfalle, calze traforate, riccioli di bimbi, code di sirene, frecce di Cupido, pesci tropicali… il tutto inserito nel cerchio della vita, catturati dal vortice del tempo, per diventare sogni attaccati al filo di un palloncino che vola alto nel cielo. Ogni disegno è poesia e trova compimento in essa; suoni e immagini sono due facce della stessa medaglia. Le due arti si completano a vicenda, sviluppandosi senza fine, senza soluzione di continuità. Versi ricchi di passione e di tensione, avviluppati con tenacia alla vita, per affermare ad ogni costo il valore e la dignità della persona umana, si snodano sull’infinito filo della fantasia.

 “Bere e ubriacarsi di vita”, il suo reiterato Carpe Diem. L’invito a bere il cielo, a godere l’oggi.

La sintesi estrema dei versi come messaggio che punta dritto al cuore; atomi d’emozione che penetrano dentro il lettore, talvolta stravolgendolo.

Parole come pietre oppure come lame taglienti che le scolpiscono, le pietre.

E non è poeta chi non si sporca nella tempesta dei versi, chi non scivola, inafferrabile, nel mare della poesia.

E la sua mente, anch’essa inondata da fotogrammi, vive l’estasi del sogno, all’insaputa dello specchio, ignaro.

Si vive solo in cima, lungi dalla piana, questo sogno, cui Mariella Sudano è saldamente ancorata. Sogno che l’autrice cita anche alla fine della silloge, in “Lettera a me stessa”.

E le fa eco la sua amica Gabriella, e Vera Ambra e, non ultima, la poetessa maltese Audrey Higgans, in un suo haiku felice, che recita:

“è meglio credere nell’impossibile, che non sognare mai”.

E quasi haiku sono le poesie dell’autrice, che stigmatizza brillantemente nei versi seguenti la impossibilità di scandagliare nel profondo, che sfocia nella manifestazione della sola punta dell’iceberg.

Fotografia.

Una stilla ciò che vedi

E di pesci di conchiglie di coralli

Un oceano non tocchi

Sogna, Mariella sogna, per dirla con Roberto Vecchioni, che se ne intende, avendo conosciuto poeti che “col pensiero, spostano i fiumi”.

 Pippo Di Noto e Giovanna Vindigni

***

Segrete stanze (Gabriella Rossitto)

Introspettiva, intimistica, si mette in gioco, aprendo le stanze della casa/cuore.

Cuore che, come una soffitta, cela ricordi di cose, affetti di persone.

Senza economia di costi o di spazi; per accogliere nel miglior modo possibile (nessuna sobrietà/per farli rimanere più a lungo nel cuore: “segrete stanze del cuore”). Per vincere ataviche solitudini.

Per cullarsi in un abbraccio, come nell’induzione poetica della ninfèa di “Monèt” (cullata nell’abbraccio rosa… farsi accarezzare da un salice piangente).

Magari, quell’abbraccio materno che le manca, che ci manca, da tempo;

(abbracciami nella mente come non ricordo/avviluppami in un bozzolo di sogno: “Tigre”) anche se ci si prende cura dei fiori, come i gigli impertinenti, degli orti, di chi parte all’improvviso, senza salutare, senza indizio alcuno dell’epilogo (ci fosse almeno un indice, un indizio/per prepararsi al gran finale: “Indice”). Se epifania c’è, dura un attimo solo; sempre che il tempo abbia ancora senso; se capire se abbia senso o un senso non ce l’ha, per dirla con Vasco.

Dopo tanti anni, dopo vari lustri, finalmente va bene. “Tutto bene” (finalmente è contenta di me). Forse perché ci si accontenta.

Ma non è una fine annunciata; perché il miracolo della vita si rinnova.

E un nuovo cuoricino batte, assente presenza, nel grembo che l’accoglie.

Un altro cuore, capace di sognare, di cambiare, ancora, il mondo.

Anche se a noi, esuli vaganti non ci è data la grazia di poter entrare con loro nella terra promessa, dopo averlo percorso (e poi/lo cambierà/quel mondo che non vedrò: Futuro).

Saranno occhi nuovi e nuove gambe a farlo per noi, come recita “La donna che sarai” – e questo, confessiamocelo pure – ci rode parecchio.

A noi poeti, che, di tanto in tanto, ci consola la trasgressione, il bisogno di uscire dalla terrestrità, e invochiamo il vento, che possa aiutarci a librarci, a salvarci, sognando di uscire dai nostri corpi, lasciati ad arte in bella copia ad affrontare la routine, per poter solcare oceani e vivere al limite del varco (infiliamoci furtivi in quella piega del tempo/in cui saremo finalmente vivi: “Ultracorpi”.

Novelli Ulisse, tracciamo nuove rotte verso l’ignoto, fino all’approdo (da “Il forziere”); senza che gli altri comprendano la nostra natura di sangue, di sogno.

La sua natura di donna, che anela, nuovamente, alle ali (riattaccatemi le ali/per favore: “Le mie ali”).

Per non farsi sorprendere dallo “Tsunami”, mentre è intenta a peccare di poco amore.

Linee morbide, schizzi di getto, disegnano figure leggiadre di donne perfette nella loro statuaria bellezza, donne che simboleggiano la primavera della vita e dell’ amore in un anelito verso la perfezione, che diventa anticipazione della bellezza divina ed eterna, intercalano le pagine del libro. Quelle linee che sembrano uscite per caso disegnano non solo “donne divine”, ma donne attaccate alla terra, alla natura, che non abbandonano il loro mestiere di donna nel vivere quotidiano, legate anche a carta, penna e calamaio… e la stanza dello studio diventa roccaforte inespugnabile, dove la scrivania è il regno della fantasia, e per dirla con Gabriella “…dove il cielo è terso e non viaggiano nuvole…” e la cultura diventa il campo dove investire i propri talenti di donna e di artista.

Cosicché, Gabriella, pittrice, poetessa, ma soprattutto donna, regina della casa, ci apri le porte di ciascuna stanza e ci mostri anche quelle remote, segrete, come la soffitta; come il ripostiglio e la cantina.

Oltre alle altre, solitamente visitabili; soggiorno, cucina, studio e camera da letto.

Grazie dell’accoglienza!

Pippo Di Noto, Giovanna Vindigni

 http://www.ondaiblea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17941:a-palagonia-presentati-qazzurro-gustoq-mariella-sudano-e-qsegrete-stanzeq-gabriella-rossitto&catid=25:poesia&Itemid=48


L’incontaminata poesia

aprile 12, 2010

 

 

Ieri sera alla Biblioteca comunale “Antonello Mamone” di Palagonia, nell’ambito delle iniziative legate al Premio letterario “Emilio Greco”, ha avuto luogo la manifestazione dal titolo “L’incontaminata Poesia”, promossa dall’Associazione Artisti e Creativi.

La dottoressa Cettina Tiralosi, dipendente del Museo “Emilio Greco”, ha presentato la figura del grande artista catanese, disegnatore scultore e scrittore, proiettando anche le immagini delle sue opere maggiori.

Dopo l’introduzione dell’editrice, Vera Ambra, la scrittrice Angela Agnello ha presentato il proprio libro di poesie, “La bimba invisibile”.

Lo scrittore Pippo Di Noto ha poi presentato “Azzurro gusto” di Mariella Sudano e “Segrete stanze” di Gabriella Rossitto.

La scrittrice Giovanna Vindigni ha invece parlato dei contenuti grafici delle due opere.

L’attrice Veronica Carfì ha letto poesie tratte dai tre volumi, editi da Akkuaria.

Un grazie particolare va a Lia Cucuzza e a Nello Zapparrata, per la gentilezza e la disponibilità nell’accoglierci nella “loro” biblioteca.

Grazie infine all’assessore, architetto Rosario Cucuzza, per aver sostenuto l’iniziativa.

 

PER LE FOTO:

http://www.facebook.com/album.php?aid=2045723&id=1594816685&l=321c3cd450

 


SCHIARITA

aprile 12, 2010

S C H I A R I T A

 

Tu dici una seconda primavera

Quest’ottobre nell’isola: La sponda

Ieri travolta è un’ansa intenerita

D’acqua celeste, limpida la fronda

Scossa nel lungo vento. Una schiarita

Dell’aria mai levò così improvviso

Colore d’allegrezza, quel tuo riso

Nitido agli occhi che ti fa più vera

D’ogni avvento sperato. E il fuoco aperto

Di campagna – la sera, il dolce agrore

Che il carro di vendemmia alza, l’ardore

Dei verdi giorni chiama e nel deserto

Risveglio il tuo ritorno è grazia ambita

Come ora la stagione rifiorita

 

EMANUELE MANDARA’